11 aprile 2016

Frank: L’indie, il talento, i social. Una riflessione

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Un paio di giorni fa, durante una conversazione in un noioso sabato sera casalingo (stare in casa is the new uscire way of life) mi è stato consigliato un film. Una pellicola indipendente del 2014, presentata al Sundance Festival e diretta da Lenny Abrahamson. Titolo: Frank. Una ricerca veloce su internet e scopro che l’argomento era la musica sperimentale. Venduto. I prossimi paragrafi saranno una trafila dei vagheggi notturni della mente di una poco più che ventenne che ha sempre dichiarato di apprezzare la musica indie, ma che subito dopo averlo affermato ha sempre sentito il bisogno di specificare, aggiungendo un “se si può definire tale”. Se vi riconoscete nella descrizione forse troverete un minimo di senso in quello che sto per dirvi.

Il film si presenta come un film quasi comico all’inizio. Il protagonista è Jon, il classico ragazzo ginger inglese un po’ sfigatello con un lavoro da taglio di vene in ufficio e l’hobby di suonare la tastiera. Cerca disperatamente di risultare creativo ma tutti i suoi tentativi sono mediocri. Finché un giorno incontra i membri di una band in tour nella sua città sulla spiaggia, mentre il loro tastierista sta cercando di affogarsi. Due chiacchere di circostanza con il manager della band e il ragazzo è reclutato per il concerto della sera seguente. La band si chiama Soronprfbs, dice di fare musica sperimentale e i membri sono uno più caso umano dell’altro. In particolare il cantante, conosciuto con il nome di Frank (interpretato da uno straordinario Michael Fassbender) che per qualche motivo sconosciuto a chiunque indossa sempre una testa di cartapesta. Qualche giorno dopo il ragazzo viene richiamato dalla band e portato quasi con la forza in ritiro in un cottage in mezzo alle montagne, dove rimarrà per svariati mesi fino alla conclusione della registrazione del nuovo album.

Questo scenario sicuramente assurdo, aggiunto ai successivi sviluppi nella trama della pellicola, mi ha portata nel cuore della notte con due ore di sonno davanti a riflettere su quella che ormai senza nemmeno pensarci chiamiamo musica indie. L’intero film si basa essenzialmente su due argomenti cardinali: sulla linea sottile tra arte e pazzia, e sul rapporto controverso tra scena musicale indipendente, talento e social media.

Frank è fondamentalmente un pazzo, raccattato dai suoi compagni di (s)ventura in un ospedale psichiatrico. E’ però un pazzo visionario, capace di ricavare dell’arte da tutto ciò che lo circonda: da un paio di calzini, a un filo tirato nella moquette. Riesce a creare suoni dagli oggetti più improbabili e ad accostarli. Anche il nome della sua band è impronunciabile, ma in fin dei conti non ha molta importanza: non hanno seguaci se non occasionali, e non cercano nemmeno di averceli se è per questo. Insomma indie pesante, pesantissimo. Jon lo prende come modello e cerca disperatamente di emularlo, pur non riuscendoci mai. Tuttavia, durante la sua permanenza con la band e la creazione dell’album inizia a documentarne ogni singolo processo creativo e ogni movimento sui social, attraverso video e post. Una cosa che se non altro lo fa sentire apprezzato, lo fa sentire davvero parte di quel processo creativo dal quale, in realtà, è e sarà sempre tagliato fuori.

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La chiave di svolta del film si presenta nel momento in cui John, a seguito della presenza costante dei Soronprfbs su internet (i quali sono praticamente diventati un fenomeno virale) viene contattato dagli organizzatori di uno dei festival più famosi al mondo per la musica emergente, il South By Southwest (SXSW) in Texas. Qui le cose iniziano a degenerare: messa davanti alla possibilità della fama, l’intera band si chiude a riccio in se stessa e si rifiuta di suonare, in particolar modo dopo le svariate proposte di Jon di scendere a compromessi e rendere il loro sound “leggermente più orecchiabile”. L’unico a cedere alle lusinghe del ragazzo è Frank, il quale è sempre più affascinato dal numero di persone che potrebbero venire a contatto con la sua arte ma ingenuamente non si rende conto delle conseguenze che ciò potrebbe avere.

Una delle cose che più mi hanno colpito di questo film, ovvero il suo dimostrare quanto sottile sia la linea tra il genio e il ridicolo, e quanto risulti difficile capire dove questo limite è posizionato. Per tutta la durata della pellicola ho continuato a non capire se la band fosse ritratta veramente come geniale o se il regista stesse cercando di farli apparire unicamente come una cricca di pretentious twats, per usare un termine tecnico. Questo dilemma è da sempre una componente inscindibile dalla fantomatica musica indipendente. Una categoria che da sempre, e in particolar modo in tempi recenti grazie allo sviluppo dei social, si basa su un paradosso: vogliamo essere famosi ma non lo vogliamo, vogliamo che più persone possibile conoscano la nostra musica ma vogliamo rimanere di nicchia.

Vale per gli artisti quanto per i fan. Quante volte vi siete appassionati ad una band quasi sconosciuta, e avete provato una sensazione di orgoglio mista a fastidio quando li avete visti diventare sempre più noti sui social? E magari vi ha dato ancora più fastidio quando finalmente siete riusciti ad andarli a sentire live, e vi siete trovati molte più persone di quelle che vi aspettavate. Vi siete sentiti dei privilegiati ad averli seguiti dall’inizio, quando ancora non erano nessuno. E magari siete anche stati capaci di fare una trafila al primo malcapitato beatamente ignaro che vi è capitato di fianco su quanto il loro primo EP registrato nel salotto del bassista fosse molto meglio della roba che suonano ora, perché era meno commerciale.

Ho letto svariate recensioni su questo film e articoli riguardanti il rapporto tra genio e instabilità mentale, prima di scrivere questo post. Mi hanno fatto riflettere su quanto, a conclusione di tutto, l’avanguardia musicale abbia più o meno bisogno di un pubblico, o se cessi di poter essere chiamata tale nel momento in cui lo acquisisce. Attraverso i personaggi opposti ma paralleli di John e Frank, la pellicola ci vuole mettere davanti a due modelli di artista: il primo, raffigurato in John, è quello con un talento ed una creatività nella media, un artista che può essere costruito e modellato a tavolino il quale cerca disperatamente di guadagnare attenzione mediatica cavalcando indirettamente l’onda della curiosità morbosa verso il singolare e il diverso, intrinseca nella società moderna. Dal lato opposto troviamo Frank, un individuo con un bisogno quasi fisiologico di creare, di sperimentare, lusingato e spaventato dall’idea del successo allo stesso tempo.

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L’arte, quella vera, è qualcosa di fragilissimo che può essere facilmente rotto in maniera irreparabile nelle mani sbagliate. I fittizi Soronprfbs hanno smesso di essere geniali e sono diventati ridicoli nel momento in cui sono stati esibiti sui social. A dimostrazione di quanto Internet sia un mezzo potentissimo senza il quale molte band meritevoli e degne di nota non avrebbero potuto emergere, ma anche un’arma a doppio taglio che può costruire come distruggere una band in parti uguali. Sia un Jon che un Frank possono servirsi dei social media per diffondere la propria arte, ma in questo caso è per il primo che la cosa diventa un bisogno fisiologico. Per il secondo, al contrario, rimarrà qualcosa di potenzialmente utile ma anche di potenzialmente pericoloso, perché il rischio è quello di non essere compreso e di diventare un fenomeno più per i propri eccessi creativi che per la musica in sé. Quindi, attenzione a quando usate il termine “indie” per definire un brano, un artista o un intero genere musicale. O almeno, siate consapevoli.

E appena potete, vedetevi Frank.