29 ottobre 2016

I Viet Cong cambiano nome: quando la politica influenza la musica

Quello che si può dedurre da notizie come il cambio di nome deciso dai Viet Cong è che, senza ombra di dubbio, l’arte – e, nello specifico, la musica – è essenzialmente espressione di ragioni politiche ed anche geopolitiche. Per quanto quella dei Viet Cong non sia affatto musica politicizzata, almeno non nei contenuti (testi), evidentemente le parole “Viet Cong” sono ancora così pesanti che lo scorso 14 marzo la loro data al Dionysus Disco di Oberlin è stata cancellata per «un nome che offende profondamente i vietnamiti e la comunità vietnamita americana».

La copertina dell'album omonimo di debutto dei Viet Cong.
La copertina dell'album omonimo di debutto dei Viet Cong (2015).

Per chi non lo sapesse, i Viet Cong erano un gruppo di resistenza armata contro Stati Uniti ed affiliati durante la guerra del Vietnam, di cui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario del termine del conflitto. Al di là di ogni opinione politica, che si riconosca o meno il genocidio ad opera dei Khmer Rossi (salutatemi Noam Chomsky al prossimo meeting di CL), basta ascoltare qualche traccia dei Viet Cong (la band) per capire che, a parte il nome, non hanno nulla a che vedere con tutto ciò. Infatti la reazione di Matt Flegel (frontman del gruppo) alla cancellazione del concerto è stata:«è solo il nome di una band.» Secco.

Eppure, a quanto dicono loro, in un post sulla loro pagina Facebook che spiega i motivi del cambio di nome: «non è stata una decisione facile, siamo un gruppo di quattro persone con quattro teste pensanti; questa discussione è stata lunga e difficile per noi e c’è voluto del tempo prima di decidere cosa fare.». Non poteva essere certo una decisione facile, soprattutto dopo essersi resi conto di quanto pesasse quel nome e quindi quanta attenzione (in senso affatto positivo) avrebbe attirato. In un articolo pubblicato lo scorso 16 settembre su Exclaim, April Aliermo (musicista canadese) parla addirittura di «razzismo» ed «appropriazione di una cultura vicina».

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L'articolo di April Aliermo su Exclaim.

Come gli stessi Viet Cong hanno spiegato al Guardian, il nome è stato scelto per gioco, senza alcuna connotazione politica ed hanno ammesso di conoscere poco riguardo gli eventi storici legati al nome scelto per la band. Nel pezzo di Aliermo, questi cita Brenda Johnson, educatore per i diritti umani al centro di ricerca per le libertà civili presso l’università di Calgary, la quale spiega come nelle leggi sui diritti umani l’«intento» sia «irrilevante». E’, invece, l’«impatto» che «conta».

Il 2015 da qualcuno sarà ricordato come l’anno dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e della seguente pseudo discussione sulla libertà di espressione, la cui sentenza ultima del popolino è stata: «è sbagliato uccidere MA bisogna anche rispettare gli altri», in parallelo con «avrebbero dovuto aspettarselo». Frasi che di fatto giustificano dialetticamente e moralmente un omicidio plurimo e cruento, il cui movente è una serie di disegni dei quali si poteva tranquillamente dire:«fanno cagare», anziché imbracciare armi pesanti e fare fuoco. D’altronde questa è la stessa retorica che si adotta quando si attribuiscono le colpe di uno stupro agli atteggiamenti “provocanti” della vittima e/o al suo vestiario. Retorica che sarebbe stata sicuramente propinata se qualcuno avesse deciso di fare del male ai membri dei Viet Cong, è più che sicuro.

Chiusa la questione “libertà di espressione”, se ne apre un’altra ben più profonda, ovvero quella politica. Perché, indubbiamente, il tentativo di ridurre il problema a “rispetto”, “razzismo” etc. etc., non è altro che un ottimo metodo di marginalizzazione. Che la scelta di cambiare nome dei Viet Cong sia sinceramente loro oppure sia imposta dall’etichetta, nessuno esagererebbe nel dire che si tratta di vera e propria censura made in “il libero Occidente” (la dicotomia mettetela da parte). La verità è che quella in Vietnam fu una sconfitta politico-militare pesantissima per gli Stati Uniti, in una guerra carica di violenze provenienti da ambedue le parti.

Che cosa c’entra tutto ciò con la musica? La musica, come ogni merce, risponde a ragioni di mercato. Le ragioni di mercato rispondono a quelle geopolitiche. Ed ecco perché dopo la Seconda guerra mondiale e con la guerra fredda, l’Italia e tutti i paesi NATO inclusi nel piano Marshall sono stati influenzati in tutto e per tutto dagli Stati Uniti. Da dove proviene il rock ‘n’ roll? Il jazz? Il rap? La risposta è sempre la stessa. Chi è la più celebre popstar russa? Quella cinese? La risposta, almeno per la maggior parte di chi leggerà, sarà sempre la stessa.

Ma una musica che deve essere espressione di ragioni politiche deve anche avere una determinata forma ed una determinata sostanza. Per questo la musica pop ha come argomento principale dei suoi testi l’"ammmore". Per evitare ogni tipo di riflessione, discussione, opinione. E marginalizzare. Così quando qualcuno prova a fare della propria musica uno spunto di riflessione o deve in qualche modo adattarsi ai parametri dell’industria musicale “mainstream” o è destinato all’oblio dell’“underground” (qualunque cosa significhi). Un giorno in cui non avete nulla da fare ascoltate i dӓlek,per esempio.

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From filthy tongue of gods and griots (2002), copertina.

Tuttavia, ad oggi, sembra che basti anche solo un nome (Viet Cong) per fare scandalo, anche se non è correlato con il contenuto della musica. Ma anche se lo fosse, quale sarebbe il problema? Anche i nomi Joy Division e New Order sono riferimenti al nazismo ma, innanzitutto, questo non fa dei membri di quei gruppi dei nazisti, né si comprende facilmente come questo possa anche solo minimamente influire sull'esistenza di chi, come chi scrive, da parte del nazismo ha subito nient'altro che “danni”. Non accuso di certo Bernard Sumner o Peter Hook di essere dei razzisti o di appropriarsi di una cultura che non è la loro. Così come non accuso Nas o qualunque altro rapper che abbia anche provato a fare del “mafia rap” o si sia atteggiato a “mafioso” di offendere le vittime della mafia.

D’altro canto vi sono dei casi in cui le accuse di “razzismo” e di “appropriazione culturale” sono decisamente fondate, sebbene le colpe di ciò siano da attribuire principalmente all’industria discografica. Impossibile non citare a riguardo i Beatles ed Elvis Presley, i quali non sono altro che il tentativo – riuscito perfettamente – dell’industria musicale di vendere un prodotto di musica nera con un’immagine pulita di artisti bianchi. Perché la black music piace all’industria, ma a questa non piace che siano stati i neri ad averla creata. Lo stesso avviene per casi eclatanti come quelli di Macklemore ed Iggy Azalea, per i quali si discute ancora se il rap sia un genere per neri o per bianchi, e un punto d’incontro sembra tutt’altro che vicino. Il caso vuole che il rap più venduto (soprattutto in Italia) sia proprio quello di questi personaggi, e il motivo è ben chiaro, il motivo per cui vengono pompati molto più di altri che valgono indubbiamente molto di più: Kendrick Lamar, tanto per dirne uno.

Ma non c’è nulla da fare. I Viet Cong cambieranno nome e questo sarà uno dei piccoli passi verso la sconfitta del razzismo. Nell’era della globalizzazione esistono ancora tabù storici e razziali e le forme d’arte di ogni genere devono attenervisi rigorosamente. Con l’autocensura.