22 giugno 2020

Il riso amaro dei Demob Happy

We have a rule, that if no part of a song is daring or strange enough to make us laugh real out loud laughs, then there isn't enough joy in it to share, no matter how serious the emotion the song conveys...it's gotta have the spark.

La risata è un fenomeno ostico, difficile da spiegare nella sua forza ed imprevedibilità. Sussulto incontrollato, occupa l’uomo in un atto che risalta il suo lato vulnerabile, mette in luce agli estranei la sua personalità nascosta, inimmaginabile. È la soglia della realtà e della finzione, apre alle molteplici interpretazioni dell’essere, è detentrice di un potere che recentemente ha destato la curiosità di un trio alternative rock di Newcastle riunito nel provvidenziale nome di Demob Happy. Formatosi nel 2007 dopo un periodo passato ad interpretare i Pink Floyd attraverso cover, essi sono Matthew Marcantonio (voce e basso), Adam Godfrey (chitarra) e Thomas Armstrong (batteria).

Per loro, la felicità è un approdo che si raggiunge dopo aver percorso un mare in burrasca, più volte perdendo la bussola al limite di un conflitto interiore. Come alte onde spumose, i loro riff sbattono su un palco scricchiolante, soffocando grida con la loro potenza annunciatrice di morte. Scuotono l’ascoltatore, lo avvertono della presunta navigabilità della rotta, si rendono utili a fargli comprendere che la stessa felicità è vana, è un benessere fittizio perché omologato e privo di slanci personali, quasi come una terapia invasiva da sottoporre a pazzi visionari.

Questo increscioso stile di vita, ormai attecchito nella quotidianità perché gestito da un sistema corrotto, è esplicato e disprezzato nel debut album del 2015 Dream Soda, dodici brani in cui le chitarre heavy dei Queens of the Stone Age si incontrano con le invettive grunge dei Nirvana. In questo stridere di corde amplificate avviene la rivolta ai demoni succhia cervello della società odierna: Haat De Stank Junk DNA fanno da colonna sonora a questa guerriglia in cui l’ascoltatore avanza a ritmo di headbanging. Neppure l’amore è l’antidoto di questa apatia imperante, il gruppo non riserva alcun spazio alle favole a lieto fine perché le ritiene depositarie di una credenza fallace, nonché specchietto per le allodole più deboli.

Dream Soda ha però un difetto, quello stile musicale troppo di maniera che esaurisce l’animo spavaldo delle tracce. È una sfida ancora aperta, se si pensa al loro secondo lavoro che ricorda un qualcosa di già prodotto dai Royal Blood, Holy Doom del 2018. Forse una posizione da eterni secondi a nomi insuperabili non è l’obiettivo principale dei Demob Happy, ce lo dicono i loro testi e la loro vita fuori dagli studi di registrazione. Su questo sono molto sovversivi:

The working class has been conditioned to shut up and censor themselves with first school style clever kid resent. The market demands lowest common denominator weekend-lifestyle yolo garbage pop. We’re not really into in all that.

Insorgere con la visione disincantata dei millennial attraverso chitarre che riecheggiano le colonne sonore delle imponenti rivolte giovanili del passato: forse lo stanno facendo nel modo giusto, se ci soffermiamo nuovamente su Holy Doom, un album che possiamo definire senza indugi di svolta.

L’ossimoro del titolo, figura retorica spesso usata quando si vuole fare ironia, segue il filo rosso del repertorio della band. Qui la sorte avversa è sacra, la cui mestizia regna sovrana su ogni tentativo di evasione dagli schemi sociali, le prigioni delle personalità. Rispetto all’album precedente, è raccontata in uno stile più inquietante e più introspettivo, con l’intenzione di rendere il perturbante affascinante. I tre musicisti giocano a scandagliare la propria mente, impegnati alla ricerca di segreti esecrabili che la formalità del quieto vivere sommerge, si dedicano a far saltare in aria ogni restrizione attraverso il suono del rock sperimentale degli anni settanta, un genere musicale sempreverde perché progressivo, mai svenevole perché scatena nell’ascoltatore un turbinio di stati d’animo cangianti. Veniamo stimolati da giri di basso psichedelici, da tom–tom ben scanditi, quasi galoppanti, ritmi che rievocano sabba oscuri e maledetti. Le undici tracce sono le tappe tortuose di una catabasi che si conclude nell’incontro con Ade, che ci osserva torvo nel suo trono ornato di teschi.

Ed è forse quest’atmosfera spettrale, il loro spirito di rivalsa giovanile urlato con voci sprezzanti, quell’essere involontariamente lussuriosi con un groove da Martini secco e LSD, tutto questo ci riporta ai cavalli di battaglia cavalcati un tempo da una band spartiacque inglese, i Black Sabbath, appunto. Assoli stonati e tremanti ricordano i deliri e i dilemmi che stanno alla base di Paranoid, mentre i falsetti ci rimandano a quel glam erede di Ozzy Osborne e compagni. C’è ancora qualche brano fastidioso, roba “trita e ritrita” di cui il singolo solitario Dead Dreamers avrebbe preso volentieri il posto, ma non possiamo non rimanere incantati dalle dolci armonie del brano omonimo Holy Doom o di essere capaci di resistere alla «psychedelic curse of Cain» di Be Your Man e Fake Satan, restiamo esterrefatti dall’autocoscienza del personaggio narrante di Loosen It. Il trio torna a ridere, ma qui la risata è coscienziosa perché sensibile ai mutamenti della realtà: è quasi un’ espressione di dolore.

Nothin’s real
Anymore
Nothing here like I’ve seen before
Like I’ve seen before
I wanna feel somethin’ more
Tell me that thing you’re dying for
That you’re dying for
’Cause I don’t know

ionicons-v5-c

A un anno di distanza da Holy Doom, ora siamo di fronte ad un’evoluzione graduale che recentemente ha fatto grandi progressi: ce lo dimostrano i nuovi singoli Less is More e Autoportrait, quest’ultima singolare perché nata dopo un incontro casuale di parole, tutte ispirate dal titolo icastico.

I am afraid
to be who I am
to be this silly man
baby it’s strange
you can be up on stage
and not feel that you’re worth a dime

https://open.spotify.com/track/5KkdV1Iq79PMNjHyznVOMW

Costruita su un riff semplice ma sporco e accattivante, Autoportrait è l’attuale testamento della band. Il suo tema, che si espande nel testo con un’energia simile a quella dirompente degli accordi, riguarda il pregiudizio falso che ci poniamo sugli altri, convinzioni che possono sfociare in competizioni inviperite e ingiuste. Anche qui il mondo reale è mistificato, poiché secondo la filosofia dei Demob Happy nessuno ha l’erba migliore del proprio vicino, ogni essere umano combatte e soffre per un modesto posto nel mondo. L’uomo è colui che mentre sta trepidamente in attesa di una mediocre soddisfazione di sé mostra timidamente un sorriso per fingere la propria vergognosa condizione. Ancora una volta scopriamo che la felicità è illusoria, e se mai avessimo la rarissima fortuna di ottenerla, la odieremmo perché ci accorgeremmo che è impura. Che fare? Non ci resta che trovarla e modellarla a nostra immagine e somiglianza. Rimbocchiamoci speranzosi le maniche, uniamoci al nostro inglorioso destino, seguiamo Matthew, Adam e Thomas e smobilitiamo una ilarità rivoluzionaria, ripulita dai dettami imposti dall’esterno.

Another face comin’ through my door
Another face just like ones before
Another race till the bitter end
A sour taste in your mouth again