24 luglio 2017

Parlare di musica sconosciuta a chi ti ascolta: una storia di solitudine

Dal silenzio agli “mmh…” e i “ma che cazzo è ‘sta roba?!”. Sono queste, per grandi linee, le reazioni verbali condite con espressioni facciali disorientate, sconcertate e schifate di certa gente all’ascolto od anche al solo parlare di un gruppo, un artista ad essa sconosciuto. E per quanto si possano ampliare ascolti e cerchie di conoscenze ed amici, le reazioni, a seconda di ciò di cui si parla o si fa ascoltare, rimangono sempre le stesse, perché, per certi (molti) versi, la musica che ascoltiamo ci categorizza.

Esiste un certo tipo di persone a cui la musica arriva ‘passivamente’, ovvero solo tramite i maggiori media: radio e tv. La musica che giunge a costoro è quella più spicciola, mediocre e di facile ascolto. Senza clamori à la “fuck-da-system”, radio e tv sono costrette a mandare roba in base a ciò che fa più ascolti. Naturalmente, non è colpa della televisione se a questa gente piace la mediocrità assoluta. Ma anche se la radio passasse qualcosa di – diciamo – carino, non cambierebbe nulla, perché la questione fondamentale attorno a cui ruota il gusto di questa gente, è che quel qualcosa sia passato così tante volte da penetrare il cervello e non uscirne più.

Si tratta quasi sempre di singole canzoni, di singoli, appunto. Per ottenere questo tipo di reazioni da parte di questi individui è sufficiente far ascoltare loro un altro brano dello stesso artista autore della hit del momento, mettendolo – che so – in auto. «Toglila (la canzone, ndr) e metti una conosciuta». Si fa poca fatica trovare qualcosa che sia sconosciuto ad uno che ascolta “Summer” di Calvin Harris in auricolari, insomma.

In fondo, però, molti (compreso il sottoscritto), hanno “iniziato” così, salvo poi scoprire o riscoprire della musica, una singola band spesso, che stravolge il modo di approcciarti alla musica e di conseguenza l’esistenza.  In inglese si dice:«I'm into a band, music etc.», per esprimere un legame con un certo artista e certa musica (c’è chi dice, più negli USA, anche:«I’m fucking with …», che magari va più nel mondo hip-hop, ma rende l’idea). Legame che ti porta inevitabilmente a conoscere nuova gente, perché senti il bisogno di condividere la musica con qualcuno, ma troppo spesso ti ritrovi a parlare con quello che ascolta Calvin Harris in auricolari ed è come parlare in mandarino ad un israeliano.

Magari, dopo un’estenuante ricerca, qualcuno che capisca il tuo mandarino lo trovi. Poi ne trovi un altro ed un altro ancora. Ti costruisci una rete di conoscenti, di amici. Cominci a pensare che in questa rete potresti anche riuscire capire cosa fare della tua vita e, infine, trovi pure qualcuno che parla così bene la tua lingua astrusa che decidi di condividerci più della sola musica. Ma poi succede che l’esistenza ti si stravolge e non c’entra la musica, ma hai bisogno di una nuova lingua che possa capire ed esprimere quello che ti passa per la testa. Ed è quando la trovi e torni nella vecchia rete, che ti rendi conto che non è più il posto per te. Puoi aver passato mesi o anni ad ascoltare ed adorare gli Arctic Monkeys o gli Oasis o i Coldplay, ma un giorno ti svegli e senti che Kendrick Lamar ha il verso giusto per parlare la tua lingua, una lingua nuova.

Kendrick Lamar

E così un beat di Dilla od uno di Madlib, su cui scorre un verso emblematico di Talib Kweli, riescono a capire come ti senti meglio di chiunque altro, in un determinato luogo ed in un determinato momento. Ma se provi a portare questo linguaggio nuovo nella tua vecchia rete, non dovrai sorprenderti di assistere alle stesse reazioni di quando hai provato a parlare con il tipo perso nei singoli sponsorizzati da Youtube. Qualcuno proverà a darti ascolto, ma finché non ci sarà dentro come te, la musica gli sarà sempre sconosciuta. E questo sempre che non ti confronti con qualcuno che nutre un pregiudizio negativo verso quella musica che ora senti ti capisca meglio di qualunque altra.

Allora ti tocca ricominciare da capo. Non è facile insegnare una lingua a chi si rifiuta di parlarla, e non è nemmeno giusto. Per questo sei costretto a cambiare rete, “giro”, sempre che non trovi qualcuno disposto a seguirti e ad esplorare musica sconosciuta, insomma, ad imparare una nuova lingua. Non è detto, però, tu debba rinnegare da dove provieni, anzi, puoi sempre portarti dietro un pezzo di passato per ritornarci camminando sulla “memory lane”. Parlare più di una lingua non è mai un difetto, e se continui a fare pratica potresti anche riuscire a tradurre ed esprimerti, così, magari, le reazioni al parlare od ascoltare musica sconosciuta potrebbero anche attenuarsi, divenire meno repellenti.

E se un giorno ti scontrassi con della musica che sfugge ad ogni categoria di pensiero razionale, eccetto lo spazio ed il tempo (e nemmeno)? E se un giorno ascoltassi i Death Grips? I Death Grips, come tutta quella musica che definirò “avanguardia” per una mera convenzione categorizzante, suonano qualcosa che non è (ancora) codificabile, descrivibile con le parole. «Scrivere dei Death Grips è impresa ardua, un po' come scrivere di una realtà musicale presente, che è troppo illuminata e visionaria per non essere di già asserita tra i capitoli della storia della 'pop music'.» scriveva un mio amico, nel 2013, su Bassifondi?. Sono passati un po' di anni, e da allora ogni mossa del gruppo rap/noise californiano ha trovato a stento precedenti nella storia della musica. Sul piano sonico, su quello discografico, su tutto. Due album post-scioglimento e tour mondiale. Scioglimento annunciato su un rotolo di carta igienica.

Death Grips

Per cui, quando mancano le parole, come si fa a descrivere della musica se non riproducendola? E le reazioni, a quel punto, saranno le solite: accentuate, nella violenza, soprattutto. «Che CAZZO è ‘sta roba?», dove “cazzo” non sta a tradurre lo stupore, ma a descrivere una copertina di un album. Il turbamento non è solo visivo, con i Death Grips, perché quello uditivo va solo in due direzioni: o il rifiuto, o il coinvolgimento e la paranoia permanente. E’ qualcosa che non risponde a nessun criterio di categorizzazione, non parla nessuna lingua conosciuta eppure trova spazio su NME, Rolling Stone e Pitchfork. Ne inventa di nuove, al massimo. Per chi non li ascolta, qualunque sia il suo background musicale, l’impatto con loro è sempre quello di un uomo contro l’ignoto, lo sconosciuto e l’alieno. Ho scritto che suonano rap/noise, prima, sì, ma l’ultimo disco è rock.

Non è magnifico, però, guardare gli occhi di qualcuno spalancarsi per qualcosa che questi ascolta o vede? Qualcosa di sconosciuto, per cui non riesca a trovare modo di esprimersi diverso dallo sproloquio? E’ più o meno questo, per grandi linee, ciò a cui ci si ritrova ad assistere quando si parla di musica sconosciuta agli interlocutori. Solitudine.