12 ottobre 2017

La traduzione del mondo in suoni: intervista a Forest Swords

In occasione del concerto a Bologna del 6 ottobre, ho fatto una bella chiacchierata con Matthew Barnes, in arte Forest Swords. Il ragazzo di Liverpool è un musicista, produttore e graphic designer, che ora sta letteralmente girando il mondo promuovendo Compassion, il suo secondo disco uscito a maggio. Forest Swords è un progetto di musica elettronica sperimentale che include sonorità tipiche del dub, l’utilizzo di loop e sample vocali, sostenuti da una base strumentale chitarra-basso. Attivo dal 2010, Barnes ha rilasciato un EP, Dagger Paths, e un primo album in studio, Engravings.

Anche se ci troviamo nel mondo della musica elettronica, l’incontro inizia in pieno stile rock’n’roll quando il tour manager mi propone di fare l’intervista nel retro del furgoncino con il quale lui, Matthew e il bassista James stanno girando l’Europa. Una cosa intima, insomma.

A prima vista, Matthew non sembra un artista eclettico e nemmeno il creatore dei suoni cupi in Compassion. Mi accoglie sorridente, mentre si scusa per il disordine e sposta oggetti non identificati per farmi posto accanto a lui. Mi dice che sono appena stati da McDonald (gli inglesi non impareranno mai), per questo non ha avuto tempo di mettere in ordine. Scorgo qualche bottiglia di birra, vestiti vari e uno skateboard di Mogwai che appartiene a James. Sono particolarmente intrigata da questo ragazzo con la cuffia nera in testa e la barba rossa. Nonostante sembri abbastanza tranquillo, quasi disinteressato, in realtà è tremendamente serio quando si parla della sua musica.

Al giorno d’oggi tutti possono fare musica nella propria stanza, basta un computer. Tu come hai iniziato?
Sono stato licenziato nel 2010 e ho iniziato a fare musica sul mio computer, così per gioco. Man mano che venivano fuori delle canzoni, le caricavo su internet. C’è voluto quasi un anno per essere notato, quindi è stato un processo lento, ma penso sia stato positivo. Mi ha permesso di lavorarci senza rischiare di essere scaraventato in qualcosa per cui non ci si può preparare. E ha funzionato. Sono molto contento di essere stato licenziato!

Pensi che ora la scena elettronica sia completamente diversa dal 2010?
Sì, perché è cambiato il modo con cui le persone condividono la musica. Mi ricordo quando collezionavo MP3, scaricando canzoni singole trovate su qualche blog. È così che la mia musica è stata scoperta.

La scena elettronica in particolare è cambiata parecchio. Ora è più un’esperienza dal vivo, gli artisti possono andare in tour, fare concerti nei palazzetti. È tutto più facile, come se la gente avesse più appetito per la musica elettronica. Ho la sensazione che sette anni fa non fosse la stessa cosa. Se avessi portato un computer sul palco, il pubblico avrebbe pensato “tu non sei un musicista”.

Certo, ora è sicuramente più dura essere notati. Penso di essere capitato al momento giusto. Non so dove sarei finito se avessi iniziato a fare musica adesso.

Per essere il momento giusto, lo è. Compassion è un album incredibile, così intenso. Cos’è cambiato dai lavori precedenti?
Quando ho ascoltato Engravings come un pezzo finito, mi sono sbalordito per quanto fosse cupo, a tratti claustrofobico. Sembra proprio scritto da qualcuno chiuso in camera da solo al buio.

Quindi, quando stavo scrivendo Compassion, volevo che fosse più accogliente. Ho incontrato tantissime persone, mi sono fatto coinvolgere in diversi progetti e ho viaggiato di qua e di là. Tutto per cercare di rendere l’album più luminoso, più aperto al mondo.

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Quali sono le tue ispirazioni quando crei musica?
Molto spesso, la musica e la parte visiva coincidono. Quando scrivo, mi tengo di fianco un quaderno dove disegno ciò che vedo. Mi piace andare nei musei e nelle gallerie a fare foto. Spesso l’ispirazione viene semplicemente da un colore, da un dipinto, dalla forma di una scultura. E da lì mi chiedo “come posso tradurre questo elemento in musica?”. Ad esempio, se voglio descrivere questo tessuto , come faccio a rifletterlo in un suono? È praticamente il contrario della sinestesia, o come cavolo si chiama.

Per la musica è la stessa cosa. Mi piace prendere degli elementi da stili diversi, come il rock o il jazz, per poi metterli insieme e creare qualcosa che abbia senso. O almeno che lo abbia per me.

Oltre ad essere un musicista, sei anche un produttore, un graphic designer, il direttore dei tuoi video. Sei un’artista a 360°. Quali sono i pro e i contro di essere il produttore di te stesso?
Wow, domanda interessante. C’è il rischio di essere troppo convinti di un’idea che magari non è così brillante. Oppure puoi restare giorni e giorni ad ascoltare lo stesso passaggio in una sorta di blocco dello scrittore. Non hai una voce esterna che ti dice “non ci siamo” o “questo non funziona”.

Quando si collabora con altre persone, si hanno opinioni differenti. E penso sia un po’ da stupidi, forse persino da egoisti, non tentare di coinvolgere altre persone. Ci sono talmente tanti artisti e produttori straordinari. A me piacerebbe lavorare con Colin Stetson (sassofonista per Bon Iver, Arcade Fire, ndr) e Kamasi Washington (ha collaborato con Kendrick Lamar, ndr), sono un loro grande fan. Probabilmente questo sarà l’ultimo album che farò da solo. Penso di aver fatto tutto quello che potevo fare per conto mio.

Ti aspetta un tour impegnativo: praticamente tutta Europa e poi, fra un mese, gli Stati Uniti. Riesci a produrre nuovo materiale mentre sei in tour?
È impressionante quanto poco tempo si ha in tour. Appena scendi dal van, il giorno è già finito. E non sono molto bravo a lavorare qui, mi serve tempo e spazio per creare. Diciamo che ne approfitto per raccogliere idee.

Questo è il tour più lungo che abbia mai fatto. È una bella sfida. A livello di pubblico, sono sempre molto sorpreso dal numero di persone che viene ai miei concerti. Dal momento che non ho idea di come questo tipo di musica venga recepita di paese in paese, non so mai cosa aspettarmi. Per esempio, i paesi dell’Est Europa sono molto presi dalla musica elettronica. Sembra essere un genere molto accettato ora.

Sono elettrizzato dall’idea di salire sul palco. Ora mi esibisco con James, il bassista, e abbiamo tutta una parte visiva nello show. Questo ci da la possibilità di portare tutto un mondo di città in città, non solo me stesso dietro ad un computer mentre schiaccio dei bottoni. Volevo che fosse un’esperienza coinvolgente con cui il pubblico si potesse connettere totalmente.

Dopo averlo rassicurato sul vivo interesse che il pubblico italiano prova per lui, ci salutiamo. Quando lo rivedo all’interno del locale, lui sul palco e io tra il pubblico, capisco di avere davanti una persona diversa. Non è più Matthew Barnes, ora è decisamente Forest Swords. È circondato da mille strumenti, tra cui una chitarra, un drum pad, una tastiera, una console per i synth, il computer, una schiera di pedali per il bassista e altri arnesi che non so nemmeno cosa siano. Dietro di loro, c’è uno schermo sul quale vengono proiettati i video diretti da Matthew.

Dopo un inizio timido, il pubblico inizia a capire il mondo di Forest Swords e lo accoglie con entusiasmo. I brani, per lo più tratti da Compassion, costituiscono un trip continuo nel quale è piacevole perdersi. Le visuals sono più che altro un supporto per immergersi più a fondo nella musica, creando uno show omogeneo e a dir poco accattivante. Il Locomotiv è il locale perfetto per Forest Swords: intimo, contenuto, abbastanza piccolo da riuscire a vedere ogni movimento di Matthew mentre “schiaccia dei bottoni”. Eppure, non posso fare a meno di pensare a grandi cose per questo duo. Spero di vederli crescere e che la loro creatività continui ad espandersi, sfruttando ogni metodo a disposizione per tradurre la loro visione del mondo in bellissimi suoni. Un consiglio dal cuore? Andate a vederli, se potete. Vi aprirà la mente.