01 febbraio 2018

In the middle of Australia: intervista a Tim Hart

A meno che non siate dei fanatici del nuovo indie folk (come la sottoscritta), quello di Tim Hart è un nome che vi dirà poco o niente. Se vi capitasse di cercarlo su Google, però, vi accorgereste immediatamente di due cose: la prima è che ha un omonimo, classe 1948, che il caso vuole fosse anch'egli un musicista folk; la seconda è che quello che in Italia è fondamentalmente uno sconosciuto, altro non è che il batterista e fondatore dei Boy & Bear, una delle band di maggior successo in Australia.
Ho avuto l'occasione di conoscerlo personalmente lo scorso ottobre al Locomotiv di Bologna e per ragioni che non starò qui a raccontare un mese dopo ci siamo ritrovati a bere un caffè in quel di Brighton, dove abbiamo parlato di ostelli, amicizie importanti e Nick Cave. Di quella mattina soleggiata ricordo in particolare modo lo sguardo schifato che gli ho riservato mentre mi raccontava di quanto fosse deliziosa la carne di canguro (a me, vegetariana convinta).

A ben sei anni di distanza dall'esordio solista Milling the Wind, dopo un'intenso tour che nel corso del 2017 lo ha portato a solcare i palchi di mezza Europa in veste di supporter dell'amico Stu Larsen ed appena conclusa l'itinerante esperienza di The Porch Sessions (se non sapete di cosa si tratta, date un'occhiata qui: http://www.theporchsessions.com), Tim torna finalmente a far parlare di se grazie al suo secondo lavoro. Si tratta di The Narrow Corner, pubblicato il 2 febbraio 2018 per Nettwerk Music Group/Bertus e anticipato dallo struggente singolo I'Do Well ("In the middle of Australia is where I lay my head"), che lo stesso cantautore ha così descritto:

For me, this song was written in one of my more introspective moments on tour...missing home and thinking back to living life a bit more simply.    

Ho approfittato dell'uscita di questo disco per fare quattro chiacchiere con Tim e farmi raccontare qualcosa in più delle 13 tracce che lo compongono. Ecco cosa ne è saltato fuori:

Se ti venisse chiesto di presentare te e la tua musica a qualcuno che non ti conosce utilizzando una delle tue canzoni, quale sceglieresti?
Penso che gli farei ascoltare All in all. Dà una buona visione trasversale di quello che mi piace. Chitarra acustica, armonie e testi.

Sono passati diversi anni dal tuo primo album solista, Milling The Wind. Cos’è successo nella tua vita in questo periodo? Ci sono eventi specifici che hanno influenzato la stesura di questo nuovo album?
Sì, sono stato molto impegnato con i Boy&Bear, perciò non ho avuto tempo di far uscire quest'album. L'anno scorso sono andato in tour con Stu Larsen e ho ricominciato con la mia musica da solista ed è una sensazione molto bella.


Come mai hai pensato proprio a The Narrow Corner come titolo?


L'autore inglese Somerset Maugham ha scritto un libro che amo intitolato così. Riguarda il fatto che, in quanto umani, abbiamo aspettative verso gli altri che le persone non riescono mai a soddisfare completamente. Per me queste canzoni riguardano la stessa cosa, per cui questo titolo mi è sembrato la scelta giusta.

Qual è, a tuo parere, il brano che meglio rappresenta questo disco?
Questa è una domanda difficile. A Long Way mostra il lato sperimentale dell'album per me, e canzoni come Not mine for the asking sono più sul versante cantautoriale. È difficile sceglierne una in particolare.

Fra i brani che maggiormente mi hanno colpita c’è “Not Mine for the Asking” e in particolare il verso: “Cause I’m gutted and guilty. I’m a church boy near 30, will I ever grow wise”. 
Quanto c’è di autobiografico in questa frase e, più in generale, all’interno dei tuoi testi?
È totalmente autobiografica. Penso che scrivere in modo completamente onesto sia una mossa rischiosa, ma credo anche di non avere altra scelta che essere onesto nelle mie canzoni. Non conosco altri modi di scrivere. Per un ascoltatore può essere scioccante, ma è parte del processo, credo.


Grazie al tuo lavoro hai avuto l’opportunità di girare il mondo in lungo e in largo, ma nel verso finale di “All in All” canti “It is Australia in my blood”: che legame hai con la tua terra natia?
Penso che chiunque sia stato abbastanza fortunato da ricevere un'educazione positiva in un posto sicuro riconosca la forza del proprio luogo natio. Per me è l'Australia. Amo viaggiare, ma c'è qualcosa nel tornare a casa in Australia che mi rende molto felice. Mi sento di appartenere a questo posto ed è una cosa speciale per me.

E' inevitabile che il tuo lavoro venga collegato e confrontato con quello dei Boy&Bear. In cosa differeriscono i tuoi due dischi solisti da quelli realizzati con la tua band? Quali sono, invece, i punti in comune?
Sì, certamente capisco che venga paragonato. Penso che le differenze non siano così vaghe. Dave ha una voce bellissima quando canta e nei Boy and Bear scriviamo insieme. Nel mio progetto c'è la mia voce e scrivo le canzoni da solo. Mi piace questa libertà e penso si senta che alcune scelte creative sono diverse da quelle che farebbero i Boy & Bear. Ma ovviamente ci sono anche somiglianze.

Durante il mese di gennaio sei stato impegnato nel Porch Sessions, che ti ha visto percorrere l’Australia in compagnia di artisti del calibro di Stu Larsen e Natsuki Kurai. Ti va di raccontarci com’è andata?
Ho trascorso un periodo magico in tour. Abbiamo viaggiato in camper e suonato in bei paesini, sia nei cortili sia in luoghi bellissimi. Le persone che hanno gestito questo tour sono splendide e Stu e Netsuke sono buoni amici, perciò è stato fantastico! In realtà sono appena arrivato a casa dopo aver guidato 17 ore da Adelaide a Sydney.


Quali sono i nuovi artisti folk che suggeriresti ai nostri lettori?
Ken Yates, Leif Vollebeck, Cameron Charles & Sam Amidon

Ho avuto la fortuna di sentirti live ben tre volte nel corso del 2017 ed è un’esperienza che consiglio a tutti i nostri lettori, perciò come ultima domanda ti chiedo: quando avremo l’occasione di vederti di nuovo in Italia?
Spero di venire in Italia nel 2018. E grazie mille per le gentili parole di apprezzamento!