18 febbraio 2020

Blossoms @ Tunnel Club, Milano

Dopo un live come headliner ed uno di supporto a Noel Gallagher, venerdì 12 ottobre Milano ha avuto la sua terza chance per scoprire uno dei gruppi giovani più importanti della scena indie inglese, i Blossoms. A soli due anni di fama, i cinque amanti degli anni Ottanta di Stockport vantano la release di numerose B-side e di due LP, questi ultimi recensiti positivamente dai nostri Maria Vittoria Perin e Davide Tuccella. Anch'io posso reputarmi tra i pochi fortunati che hanno conosciuto il gruppo agli albori della loro carriera, quando il revivalismo della decade più eterogenea dell'ultimo secolo era ancora ponderato all'estero e già disastroso in Italia. Pur essendo connazionale del re della disco music Giorgio Moroder, mi ero accorta che i miei coetanei che si divertivano a fare gli artisti bistrattavano il genere con degli esiti sterili, così rimasi sorpresa dalla capacità dei cinque di ridare una nuova vita agli arcaici suoni digitali con l'indie mellifluo dei Coral e dei Courteneers, una peculiarità che li apriva verso la strada del successo, un percorso brillante che per gli occhi italiani è ancora opaco. Anche stavolta la location era il Tunnel Club, e a malapena si sono strappati tanti biglietti. Non si può affermare che i suoni elettronici nel rock piacciano tantissimo agli italiani: persino i più maturi Phoenix erano riusciti a fare sold out al Fabrique (che può contenere 3000 persone) la sera stessa della loro esibizione.

Visti la scorsa estate al NOS Alive durante un set sostitutivo ai Kooks e per questo motivo di alto livello, mi aspettavo un brio simile, ricordo ancora con piacere che gli stage antics simil-Turner del cantante Tom Ogden erano riusciti a catturare un pubblico smorto con la maglietta dei Queens of the Stone Age che non era riuscito a saltare nemmeno durante il concerto dei Black Rebel Motorcycle Club. Purtroppo le tempistiche e lo spazio del Tunnel non permettono tutto ciò: i cinque a malapena si sono mossi sul palco per utilizzare i numerosi strumenti, un bagaglio più ricco dell'ultima apparizione avvenuta a febbraio del 2017. Si nota la differenza: con l'album recente "Cool Like You" il gruppo si consolida nella tradizione con un lavoro fedele e più ricercato. Nella serata è stata data una particolare attenzione a Myles Kellock, il quale nel corso dell'anno ha reso più puri i suoni dei suoi synth per creare variegate scale coinvolgenti e poco strette negli stessi giri di accordi, ma purtroppo è stato deludente constatare la scarsa qualità dell'impianto sonoro del locale, perciò è stato impossibile sentire chiaramente le strutture complesse presenti in brani quali Cool Like You e Giving Up The Ghost. Gli stessi membri del gruppo, quasi come presi da una frenesia ansiosa, hanno affrontato la propria scaletta senza stacchi, come se sapessero che dopo la loro esibizione ci sarebbe stato un dj set. Si è ripresentato lo stesso avvilente scenario di febbraio, ma con molti brani alle spalle e con meno animo tra la folla, che stavolta ci ha regalato un risicato coretto da stadio: a quanto pare gli amici ubriaconi di Manchester della band sono rimasti a casa in questa leg del tour, il pubblico straniero (così fedele che li segue persino in questo piccolo spazio) era abbastanza mansueto. È inevitabile intraprendere una polemichetta sterile al riguardo: vogliamo, di grazia, assegnare un altro locale a questi poveri disgraziati? Chissà se la volta buona arriverà ad inizio 2019, come mi ha svelato con poca segretezza il bassista Charlie Salt.

Ma torniamo alle note di merito: il voto più alto è da assegnare al primo chitarrista Josh Dewhurst che finalmente pare più rilassato sul palco e più sciolto con i suoi fan (ha pure sorriso, che traguardo!), segue il cameratismo tra i due cognati Tom Odgen e Joe Donovan, talmente legati da asciugarsi la fronte madida di sudore a vicenda. Donovan non ha temuto il piccolo momento di gloria della sua presentazione, ci ha salutato con il tipico assolo mozzafiato dei batteristi, mentre Ogden, nonostante fosse ieratico come una statua di cera, si è sfilato tre chitarre da collezione, di cui l'amatissima acustica regalatagli da James Skelly, preziosa per scaldarci il cuore con My Favourite Room. A bordo della DeLorean di Doc, siamo schizzati dentro a un vortice spazio-temporale per approdare in una festicciola da college molto simile alla Enchantment under the sea dove si sono amati per la prima volta i genitori di Marty McFly, abbiamo rivissuto il clip musicale di How Long Will This Last?, omaggio alla celebre trilogia di Robert Zemeckis. Si è guardato per un attimo il soffitto: c'era una strobosfera!

Questa è la scaletta della serata:

  1. There's a Reason Why (I Never Returned Your Calls);
  2. Unfaithful;
  3. How Long Will This Last?;
  4. Getaway;
  5. Giving Up The Ghost;
  6. I Just Imagined You;
  7. Stranger Still;
  8. Between the Eyes;
  9. Blow;
  10. Blown Rose;
  11. Honey Sweet;
  12. Cool Like You;
  13. My Favourite Room (più le cover Last Christmas e Half The World Away)
  14. Love Talk;
  15. una breve jam session chiamata nella scaletta con il nome Intro
  16. At Most A Kiss;
  17. I Can't Stand It;
  18. Charlemagne.

Last but not least, l'apertura al concerto fatta dal gruppo francese Keep Dancing Inc., anch'essi figli della new-wave e di quell'indie un po' hipster, un po' colto nei suoi riferimenti storici. Nati più tardi dei loro più celebri amici che li hanno ospitati per le loro tappe europee, si mostrano più originali di qualche indie attempato che recentemente ha voluto fare il passo più lungo della gamba (Kasabian, Franz Ferdinand). Bravissimi ed eccentrici, sapranno trovare la loro strada, hanno solo bisogno di più esperienza e di più sfacciataggine: solo così troveranno un pubblico degno di loro.

Si ringrazia Maria Laura Arturi per il suo contributo fotografico (http://www.arturized.com/).