15 settembre 2016

Italians do it better? No, but they can do it, too: come l’Home Festival mi ha restituito la speranza in una cultura europea della musica in Italia

Photo credit: Panorama.it

Sono una ragazza italiana di ventitré anni, e da quattro vivo a Londra. Mi sono trasferita per fare l’università, ed in particolare per frequentare la facoltà di Music Management. Non è stata una scelta facile e con il senno di poi niente di quello che è avvenuto in questo periodo lo è stato. Ho rinunciato alle amicizie, alla possibilità di avere un qualsiasi tipo di relazione stabile o duratura, alla vicinanza della mia famiglia, al vivere in una casa spaziosa per conto mio. L’ho fatto perché vengo da una regione, il Veneto, che per quanto mi riguarda non ha mai considerato il mio obbiettivo di carriera nell’industria musicale come un vero e proprio lavoro.

“Ma cosa studi di preciso?”, “Ma quindi suoni qualche strumento?”, “Ah, ma è considerato un lavoro?”, sono solo alcune delle domande che mi sono sentita rivolgere da appena ventenne, al mio primo ritorno a casa da Londra per qualche giorno, da individui adulti e non. E’ questa la cosa che maggiormente mi ha turbata, il fatto che molti dei miei coetanei non avessero idea dell’esistenza di una vera e propria industria celata dietro ad una canzone alla radio, ad un concerto in piazza o in uno stadio, fatta di tanti meccanismi complicati e di una miriade di ingranaggi. Vaglielo a spiegare tu, che quello che vuoi diventare è uno di quegli ingranaggi, anziché l’interprete, l’avvocato o il medico.

La musica, in Italia, è purtroppo rimasta relegata in una dimensione tradizionale che si riflette in particolar modo nell’ambito del live. Con il passare degli anni, nel corso dei miei studi e nelle innumerevoli esperienze personali che Londra ed in generale l’Inghilterra offrono sotto questo punto di vista, mi sono resa conto che ciò che manca in Italia non sono i concerti o i festival. E’ la cultura della musica (in particolare di quella dal vivo), la concezione di quest’ultima come un’occasione per unire, una vera e propria celebrazione che racchiude innumerevoli ambiti oltre a quello musicale, come succede per i festival internazionali: Glastonbury, Sziget, Reading & Leeds, solo per citarne alcuni. Sotto questo punto di vista, l’Home Festival è stato per me una svolta. Mentre mi avventuravo nell’area del festival durante la prima giornata, tra i palchi e gli innumerevoli stand, non cessavo di stupirmi di quanto si avvicinasse alle realtà europee sopracitate.

L'evento si svolge annualmente ormai da sette anni nell'area dogana a Treviso, nell'arco di quattro giornate (1,2,3 e 4 Settembre) e conta 10 palchi, oltre 160 show, più di 36 band al giorno in oltre 100.000 mq di area. Non coinvolge solo la sfera musicale ma anche sport, arte, cultura ed eventi di warm-up, adatti ad un target ampissimo. Oltre a presentare dei servizi eccellenti, tra i quali l’area da campeggio attrezzata resa disponibile da quest’anno.

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Il pubblico di Home Festival. (photo credits: Panorama.it)

Alla prima giornata di Home Festival ci sono venuti anche i miei genitori, una coppia di ultra-cinquantenni che per quanto ben informati sulla musica di Editors, Ministri e I Cani non avevano mai sentito parlare. Li ho ritrovati a fine serata, e non hanno smesso per un attimo di ripetere quanto si fossero divertiti, e di non aver mai visto niente del genere prima d’ora.  A dimostrazione di quanto Home sia una realtà accessibile a tutti, senza perdere nulla dal punto di vista della qualità. Probabilmente è stata proprio questa la sua carta vincente, che gli ha permesso di passare da un evento di dimensioni modeste al vincitore del premio come miglior festival d’Italia in sole sette edizioni: senza contare che l’edizione di quest’anno ha visto un’affluenza di ben 88.000 persone, una cifra senza precedenti nella storia dei festival musicali italiani, e ha visto la partecipazione di band e artisti internazionali come Editors, Prodigy. Eagles Of Death Metal e Martin Garrix solo per citarne alcuni, oltre ad una miriade di artisti italiani come Ministri, I Cani, Fabri Fibra e Max Gazzé.

Editors, headliners del Clipper Main Stage (foto dell'autrice) Editors, headliners del Clipper Main Stage
(foto dell'autrice)
Editors, headliners del Clipper Main Stage(foto dell'autrice)

E il fatto che si svolga nella mia regione, in Veneto (Treviso), rappresenta per me una piccola rivincita personale.

Ovviamente (siamo in Italia, non dimentichiamolo…) le polemiche non sono mancate. Mi è bastato aprire i giornali al termine l’indomani della seconda giornata, che prevedeva i Prodigy come headliners del Clipper Main Stage, per rendermi conto del perché l’Italia faccia così fatica ad inserirsi nel panorama europeo della musica live: Dalle lamentele alla minaccia di sanzioni per i livelli di volume troppo alti, ai singoli ed isolati episodi di vandalismo sbattuti in prima pagina, da quotidiani che preferiscono fare scalpore con questi casi isolati anziché lodare il lavoro eccellente e senza sosta degli oltre 2000 volontari presenti al festival.

In conclusione, forse le cosiddette “istituzioni” non saranno ancora pronte per una cultura europeizzata della musica live, ma le persone, di ogni età ed estrazione sociale, lo sono. Mentre mi trovavo tra il palco e la folla, ogni tanto mi voltavo ed osservavo il pubblico presente all’esibizione degli Editors. Vedevo ragazzi e ragazze, coppie sposate, giovanissimi e non con gli occhi che brillavano, anche se forse la metà di loro non aveva nemmeno idea di chi fosse la band sul palco. Welcome Home, recitava la scritta che troneggiava sopra i cancelli d’ingresso, non a caso. Ovunque io camminassi, tra un palco e l’altro, vedevo un senso di unione e di appartenenza che non avevo mai visto prima d’ora, a nessun evento a cui fossi stata nel mio paese. Era come una grande festa, 88.000 sconosciuti che eppure, per qualche strana ed inspiegabile magia, si sentivano a casa.