31 marzo 2020

Quei testi d'amore e quel baritono inconfondibile degli Editors in scena all'Alcatraz di Milano

Quasi mi vergogno ad ammetterlo, ma questa è la prima volta che ho l’occasione di vedere gli Editors, una band estremamente amata nel nostro paese e accolta a braccia aperte almeno una volta all’anno. La prima cosa che noto mettendomi in fila all’Alcatraz di Milano per la prima data sold out della doppietta meneghina dell’11 e 12 febbraio è l’età media del pubblico. La maggior parte delle persone che mi attorniano sono tra i trenta e i quaranta il che mi fa capire che probabilmente, come tenevo, è proprio vero che sono vecchia dentro e ormai i ragazzini dell’età d’oro dell’indie, quel fatidico 2006, ormai sono cresciuti. L’indie come lo intendo io, quel fenomeno puramente british, ormai è un affare per gente matura. La sala è zeppa, gremita di fan della prima era, e la band alle 21:15 sale sul palco con una grancassa piuttosto familiare, scegliendo come apertura un cavallo di battaglia: An End Has a Start.

Tom Smith si staglia dinoccolato su una scenografia minimale di fronte agli altri membri della band, look total black, una maglia a maniche lunghe che gli permette una completa libertà di movimenti, di volteggiare a destra e sinistra del palco, di imbracciare la chitarra, di toglierla e sedersi rapidamente al piano, azioni che si ripeteranno costantemente per tutta la durata del concerto da Bones a Ocean Of Night. Ed eccolo arrivare quel famoso baritono, invidiabile, che ha reso gli Editors inconfondibili sin dal primo album, The Black Room. Profondo, ma allo stesso tempo tenero e lievemente intriso di una certa malinconia, trova il suo apice nei pezzi più celebri del gruppo che si stagliano in mezzo alla setlist che comprende diverse canzoni più recenti. Al primo ascolto dell’ultimo disco, Violence, avevo storto il naso, questa nuova svolta elettronica non mi aveva per nulla convinta, invece sentite dal vivo Magazine e Frankestein riescono incredibilmente a stupirmi, risultando vigorose e avvolgenti, capaci di animare la venue e dare un twist “ballerino” alla serata. La canzone più riuscita di questa nuova svolta sintetica è sicuramente Violence: le luci sullo sfondo si dipingono di rosso e seguono i battiti oscuri di sintetizzatori di cui sono infusi tutti e 6 i minuti del brano e sono in grado di farmi muovere rapidamente la gamba a tempo facendomi pensare che se i prossimi lavori degli Editors saranno così non sarebbero per niente male.

Nonostante ci siano momenti in cui la gente riesce a pogare al suono delle chitarre elettriche e il pubblico va in un euforico visibilio con Tone Of Love, il singolo sopracitato Violence insieme all’encore finale di Distance, The Racing Rats, Munich e Smokers Outside the Hospitals Doors mi fanno ricordare la caratteristica per cui più ammiro gli Editors e per cui non smetterò mai di ascoltare alcune delle loro vecchie canzoni: la capacità di raccontare il lato malinconico e debole dell’amore, quel sentimento in cui a tutti piace crogiolarsi. «People are fragile things, you should know by now»: mi ritrovo improvvisamente a cantare a squarciagola uno dei mantra che mi accompagnano da sempre. I ragazzi, non particolarmente chiacchieroni dopo 24 canzoni salutano in fila tutti insieme, come nella migliore tradizione teatrale, lasciando il pubblico soddisfatto, forse con la voglia di avviarsi in solitaria verso la stazione della metro con in cuffia quei primissimi dischi degli Editors e farsi cullare da una notte pensierosa a Milano.

Si ringrazia Maria Laura Arturi per le belle foto di seguito: http://www.arturized.com/