Love Is Dead CHVRCHES 25 maggio 2018
7.6

Era il 30 gennaio quando i Chvrches hanno fatto sparire tutti i loro vecchi post da Instagram e Twitter (Radiohead docet) per postare un criptico video che annunciava l’imminente nuovo album.

E finalmente il 25 maggio il trio scozzese è tornato in scena con la terza fatica discografica: "Love Is Dead". Titolo molto forte, probabilmente un po’ pretenzioso. Come affermato in numerose interviste dalla frontwoman Lauren Mayberry, il titolo fa riferimento alla morte dell’empatia nella società moderna. La Brexit, l’elezione di Trump, il movimento #MeToo delle donne vittime di abusi, quello degli studenti americani contro le armi da fuoco, sono tutti elementi che hanno influenzato la band, ora trapiantata a New York. La copertina dell’album mostra la cantante con un cuore sbarrato disegnato sul petto. Un artwork molto emo/adolescenziale, che ricorda in parte alcune copertine dei Blink 182 o dei Green Day.

È la prima volta che un loro album non viene auto-prodotto, ma creato sotto la guida del guru del pop Greg Kurstin (Adele, Pink, Sia, Liam Gallagher), e la collaborazione di David Stewart degli Eurythmics (ricordate Sweet Dreams?) e di Steve Mac (Demi Lovato, Shakira, One Direction). Leggendo questi nomi si capisce l’obiettivo dell’album: provare a tirare fuori qualche hit. Già, perché una delle grandi contraddizioni di cui sono stati capaci i Chvrches in questi anni è stata quella di diventare una band nota in tutto il mondo (anche negli Stati Uniti), oscillando fra l’elettronica e l’indie-pop, non avendo mai prodotto veri e propri singoli da top 10.

Il disco si apre con Graffiti, che reca il marchio di fabbrica della band: due synth massicci a cui si sovrappone poco dopo la voce di Lauren. Ed è subito questo il primo punto di rottura con il passato: per la prima volta la voce sovrasta le parti strumentali. Sarà così per tutto l’album - cosa che di sicuro farà storcere il naso a chi si era innamorato del loro sound proprio per questa particolarità. Ma d’altronde se si vuole scalare la vetta delle classifiche bisogna stare al gioco. Il testo pare fare riferimento ad una storia d’amore di gioventù finita (male), anche se la cantante ha ribadito che l’album non parla di storie sentimentali. Sarà. Magari la seconda traccia, nonché primo singolo Get Out, (“Talked ourselves to death /Never sayin' what I wanted /Sayin' what I needed /I pushed you to the edge”) in realtà fa riferimento alla Brexit e sono io che non l’ho capito. Brano assolutamente orecchiabile che vi entrerà in testa e non vi lascerà più. La produzione è di alto livello ed ha tutte le carte in regola per avere successo. Deliverance serve come ponte per quello che segue nel brano successivo My Enemy: una collaborazione con Matt Berninger dei The National. Un duetto ben strutturato, a tratti molto intimo, scandito da una drum machine pacata e da un tappeto di sintetizzatori. La voce di Lauren irrompe nel ritornello, senza la foga dei brani precedenti, ma in linea con il tipo di canzone.

Seguono Forever e Never Say Die che riprendono il filo del discorso intrapreso a inizio album, casse scandite in quarti, sintetizzatori ben strutturati e ripetizioni ossessive delle parti melodiche vocali. Vogliono entrare nella testa dell’ascoltatore, e ci riescono. Quello che però si perde rispetto al passato è quella sensazione di straniamento e di sorpresa, rimpiazzata da una produzione volutamente commerciale. Ed ecco che si arriva a Miracle, quarto singolo e unico brano di Love Is Dead prodotto interamente da Steve Mac. È la perfetta sintesi dell’album: un mix fra i Chvrches e la Britney Spears dei tempi d’oro. La strofa è costruita su un climax che porta alla distorsione totale della voce della Mayberry e che precede un ritornello che potrebbe essere degli Imagine Dragons, data la prepotenza della grancassa e dei numerosi “Oohh oooh ohhh”. Insomma, non mi stupirei di sentirla parecchio su molte stazioni radio.

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Graves ricorda vagamente i College (avete presente A Real Hero usata nel film Drive?) che uniscono le forze a Gwen Stefani. Il testo qui si dimostra interessante: “Do you really believe that you can never be sure?/They're leaving bodies in stairwells./ Washing up on the shore.” Una chiara denuncia della crisi umanitaria sulle coste del mediterraneo. “Oh, baby you can look away/While they're dancing on our graves” canta la Mayberry a squarciagola nel ritornello. Ed è bello ritrovare questo contrasto fra una scrittura molto cupa e una melodia che è quasi l’opposto, come a voler sottolineare le contraddizioni e l’ipocrisia dell'Occidente.

Segue Heaven/Hell, probabilmente la traccia più debole dell’intero album, e non a caso anche la più lunga, poco più di cinque minuti. La struttura è molto semplice, ed essendo costruita sulla ripetizione ossessiva del ritornello “Is this heaven or is this hell?”, superati i tre minuti inizia a risultare stucchevole. Ed è un peccato, visto che alcuni spunti sono forti e di denuncia: “Is it right if I'm a perfect actress?/Playin’ the princess in distress/Is it enough, yeah? Is it enough?

Si arriva così all’ultima parte dell’album, in cui inizia a prevalere un senso di oscurità nei sintetizzatori, ma senza mai perdere di vista la luce che si riesce a intravedere alla fine del tunnel. God’s Plan è l’immancabile traccia riservata a Martin Doherty, l’altro membro del trio. Il pezzo è decisamente una spanna sopra i soliti contributi di Doherty: per certi versi ricorda gli XX, al punto che potrebbe essere stata prodotto da Jamie xx. Le atmosfere poi si fanno sempre più rarefatte con Really Gone, una sorta di ballad post-pop dove un sintetizzatore quieto accompagna i versi malinconici della Mayberry.

Si arriva così alla penultima canzone dell’album, ii, l’unica interamente strumentale, dove a farla da padrona è il pianoforte (una novità per il trio di Glasgow) che serve a introdurre la conclusione di questo viaggio: Wonderland. Canzone malinconica e sognante che ancora una volta mostra le contraddizioni del mondo in cui viviamo: “We live in a wonderland / Like blood isn't on our hands”, facciamo finta di essere chi non siamo, facciamo finta che vada tutto bene, ma spesso non è così. “I can't live forever with my head and my heart in the clouds” forse è proprio un monito a svegliarsi da questo torpore e seguire Alice nella tana del Bianconiglio.

CHVRCHES live in Italia: 14 novembre 2018, @ Fabrique, Milano

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