Vol. 11 & 12 Desert Sessions
9.2

Una mattina dello scorso dicembre, dieci musicisti, che tra di loro si conoscono sì e no per nome, vengono trascinati nel bel mezzo del nulla del deserto della California, catapultati in una realtà distante anni luce dalle rispettive abitudini compositive. L’obiettivo: in soli cinque giorni dar nuovamente voce, dopo ben sedici anni di silenzio radio, a quello che a conti fatti è il mixtape più longevo della storia della musica. A far loro da mecenate e spirito guida, la mente originaria del progetto stesso, Josh Homme, le cui parole rimbombano tra le rocce e le menti dei compositori come l’eco della polvere sabbiosa insinuata per millenni sulle spine dei cactus e gli ululati dei coyote, perché: «nel deserto non c’è veramente nessuno a cui freghi che tu suoni, eccetto te e me.» Le Desert Sessions sono tornate.

Tuttavia, quella che ai tempi era una gita fuori porta tra amici, una scampagnata per funghetti nella Sky Valley lontano dal severo metro del successo commerciale, il cui risultato veniva in piccola percentuale rielaborato in brani per i Queens of the Stone Age, è stata traslata alla contemporaneità in veste di un nuovo supergruppo senza membri fissi, autoconclusivo nella sua realtà dipinta dalle tracce (non più demo) di Vol. 11 & 12. Questa volta infatti la composizione della squadra spazia, per citarne alcuni, da volti noti come Billy Gibbons degli ZZ Top, Mike Kerr dei Royal Blood, Carla Azar, batterista di Jack White, Matt Sweeny, Jake Shears degli Scissors Sisters a nomi sconosciuti come Libby Grace ed il fantomatico Töôrnst Hülpft. Invariata resta invece la struttura dell’opera, salda nella tradizione dei volumi passati di districarsi sui due lati del vinile, con rispettivamente da una parte Arrivederci Despair e dall’altro Tightwads & Nitwits & Critics & Heels.

Il lato A si apre quindi con Move Together, brano mosso dalla voce di Gibbons su tenui colpi di synth che scandiscono lentamente il tempo: non sentire una base blues o simile che accompagni lo ZZ Top salterà subito all’occhio e per i primi minuti ci si sentirà effettivamente smarriti, quasi al punto da chiedersi se non si è sbagliato disco. Questa confusione però funge da anestetico in vista della grandiosa entrata in scena della cavalleria, un’epifania scandita in due diversi momenti della traccia. È la classica accoppiata di chitarre e batteria, ma con al suo interno un indescrivibile elemento ancestrale in grado di risvegliare l’elicoidale del nostro dna che ci avvicinò, da principio, alla stessa natura del rock’n’roll.  Da qui in avanti, il resto dell’album potrebbe anche essere Homme che canta scimmiottando un accento lappone con pitch ridotto e andrebbe bene lo stesso, frase che col senno di poi andrebbe evitata. Eppure, non contenti, Homme e i suoi decidono di alzare nuovamente la posta oltre l’atmosfera proseguendo con Noses in Roses, Forever, traccia che senza troppi giri di parole è semplicemente pazzesca: costruita su tre atti distinti e intersecati alla QOTSA, sembra raccogliere il lascito da vero outsider del mitico Era Vulgaris, sommandolo alle strutture liriche di Rated R e ad un drop trascendentale reminiscenza delle notti di Lullabies to Paralyze. Da ascoltare, specialmente in cuffia per vivere totalmente la post-produzione e l’esperienza a sostegno delle Desert Sessions, dagli inconsueti arrangiamenti ai mai scontati metri ritmici che spronano l’ascoltatore a non perdere mai il passo.

La terza Far East For the Trees è d’altro canto un’instrumental, composta a dovere e che brilla particolarmente grazie alla forte componente di presenza scenico-ambientale, frutto di ispirazioni messicane di aridi campi aperti. Viceversa, la successiva If You Run, oltre a chiudere l’undicesimo volume, si guadagna anche a pieni voti il titolo di sorpresa del branco, come rivisitazione moderna di un filone mezzo country scomparso da tempo: la voce di Libby Grace, di cui non si trova alcun riferimento musicale all’infuori di questo, rende carattere al brano ed in combinazione ad un’acuminata chitarra elettrica sancisce nel migliore dei modi la conclusione della prima metà dell’intero album.

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Quasi seduta stante e in maniera dirompente si aprirà poi il secondo atto, Tightwads & Nitwits & Critics & Heels, attraverso le note di Crucifire, parte del repertorio dei Royal Blood in una realtà parallela. Qui Mike Kerr non ha di certo problemi nel sentirsi a suo agio in un brano simil garage rock, veloce, schietto, senza orpelli vari e dritto al punto, vistoso abbastanza per attirare un pubblico più ampio al mixtape. Al contrario, lo stesso non si può dire di Chic Tweetz e della comparsa dell’effimero Töôrnst Hülpft: lappone, con inesistenti precedenti musicali risalenti al 1972 ed un account Twitter dal dubbio contenuto, senza dimenticare che è anche palesemente Josh Homme, accento farlocco, pitch ridotto e quant’altro. Il peggio? Questo pezzo vi entrerà in testa come nessun altro, merito di una base pop rock anni Ottanta messa nel più arrugginito dei frullatori e del no-sense generale: «I thought I was doing great…» afferma, un po’ tanto sorpreso, Töôrnst non appena ignoti interrompono la musica, fortuna invece per noi che ci fosse un qualcuno a fermare tali vaneggiamenti. Segue pertanto Something You Can’t See, cantata da Jake Shears e che manca nettamente tutta la componente sperimentale caratterizzante le sei composizioni precedenti, peccando di conseguenza l’assenza di una propria originalità per lasciare il segno, nonostante comunque non sia di per sé noiosa o quantomeno poco interessante. Notati ormai i titoli di coda all’orizzonte, il dodicesimo volume termina la sua corsa di estro artistico sugli accordi di Easier Said Than Done: Homme al timone per il gran finale, con focus su un pianoforte, praticamente unico protagonista prima della chiusura in pieno stile …Like Clockwork, da cui chiaramente ritornano alla memoria il periodo di collaborazione e scambio di idee tra Sir Elton John e i Queens of The Stone Age.

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Non a caso infatti, col passare del tempo, le Desert Sessions sono diventate un’icona del rischio sonoro, in continua caccia per una vulnerabilità musicale provocatoria delle categorizzazioni dei diversi generi e spinto esclusivamente dalla velocità d’ispirazione, combinando così artisti e relative influenze tra loro discordanti. Considerato alla stregua di album, Vol. 11 & 12 non è da meno e, per quanto a lungo si sia fatto attendere, ha dimostrato di essere uno tra le migliori aggiunte alla collezione ormai più che ventennale. I colpi di scena in ogni singola traccia, i repentini cambi di tempo, i dettagli nascosti, gli strumenti utilizzati e, in generale, lo spirito di libertà di fondo rendono questo disco unico, coeso nelle svariate sfaccettature. A legare i dodici volumi è la domanda, monito ed egida del progetto, posta da Homme ai dieci musicisti di quest’edizione: «vi ricordate perché avete iniziato a suonare?». Allo stesso modo, Vol. 11 & 12, sfidando il proprio pubblico, chiede invece: «vi ricordate perché avete iniziato ad ascoltare?».