Good Cop Bad Cop Good Cop Bad Cop 29 marzo 2019
7.6

Capita a tutti di perdere di vista il filo di Arianna all’interno del gigantesco labirinto di Spotify: si finisce sempre per sbattere in qualche accozzaglia di successi brit pop riuniti distrattamente da un anonimo ammiratore degli Oasis. Che la playlist sia di Londra o di Città del Messico non importa: c’è sempre quella band di talento rovinosamente scivolata nel baratro delle sagre delle Midland, band che nel fiore degli anni riunivano ubriaconi nerboruti con meno di dieci sterline, momenti significativi che scorrevano nel dubbio tipico di ogni passione giovanile, passatempo che è stato fruttuoso per pochissime band di provincia. Tra chi non ce l’ha fatta possiamo annoverare i Milburn, quartetto di Sheffield nato un anno prima degli Arctic Monkeys formatosi nel rock and roll rivisitato degli Strokes. È al gruppo delle scimmie del polo nord che tuttavia si dà il riconoscimento di aver sdoganato quel garage con le Stratocaster acute – un’evoluzione ancora acerba dei primi Cure, se vogliamo azzardare – un accompagnamento lento e martellante che scandirà i progressi dell’indie inglese. Non è dunque una loro esclusiva peculiarità, la sola Last Bus (contenuta nell’album di debutto Well Well Well del 2006) può fare da esempio. Il successo in sordina e altalenante dei Milburn non esclude una seria professionalità e una viva partecipazione ad instaurare nuovi paletti identificativi dell’indie, abilità riconosciute dagli stessi Arctic Monkeys: il chitarrista Tom Rowley è il loro turnista dal 2013, mentre il frontman Joe Carnall ha da poco fondato una nuova one man band prodotta da Matt Helders, Good Cop Bad Cop, un nuovo tassello che arricchisce la sua variopinta carriera solista.

Tutto ciò che fa da satellite all’album "Good Cop Bad Cop" (Count To Ten Records, 2019) è vincente, ci bastano pochi elementi non tecnici a spingere il bottone di play, il desiderio di scoprire ulteriori lati nascosti di Carnall ed Helders e il curioso aspetto cinematografico della copertina, riecheggiamento della particolare tecnica interrogatoria adottata dai poliziotti americani; non a caso quella simmetria può essere intesa come rappresentazione della luce e delle tenebre della psiche umana, un’immagine che accompagnerà l’andamento fosco e sfavillante dell’album. Stiamo ascoltando un LP che ripercorre gli anni Ottanta attraverso un uso intelligente di sintetizzatori, un repertorio di drum machine (Sharp Shooter) ed echi metallici in dissolvenza (When You’re Not Winning) che ci riportano alle colonne sonore dell’intoccabile mostro sacro John Carpenter – impossibile non fare un confronto con Assault on Precinct 13 – qui con sorpresa sfiorato senza sciuparlo. È un’esperienza sensoriale a volte futuristica, a volte pop, che ci trasporta in un tempo e luogo immaginari degli Stati Uniti a bordo di una sidecar con addosso una divisa e degli aviator scuri, mentre ripassiamo in un ghigno a denti stretti il Miranda warning; End of Level Boss I e II ci danno la carica giusta. Impavidi nella notte metropolitana, ci facciamo strada assaggiando il pericolo (Taste the Danger).

Ma siamo due corpi e due anime, e come in ogni serie televisiva dedicata alla nostra professione, siamo travagliati dall’amore. I due versi del ritornello di Quarter Past June (Before we are thrown in the deep end / Why don't we go and waste a weekend?) o la seconda strofa di Times New Roman (Why don’t you put that red dress on? / Let’s pretend that there’s nothing wrong / And I suppose it’ll make you happy) risuonano come una speranza che ci scalda il cuore. È una passione giunta al capolinea dopo un percorso lento e cigolante, caratterizzato da un ordinario leitmotiv, l’allarmante pausa di riflessione portatrice di ulteriori discordie in una coppia (se ne parla anche in Landline con sfumature differenti). Carnall mette alle strette la sua dolce metà attraverso un ultimatum: «The beginning of the end / Or the end of the beginning? / Decide» (End of the Beginning), intrecciando con acutezza l’esordio con l’epilogo. Pare che la risposta sia positiva, restiamo nel dubbio come nel famosissimo – e abusatissimo– finale di Inception. Ma cosa resterà di quegli sporchi piedipiatti Silk and Leather, maledettissime facce toste? Una favoletta noiosa per le nuove generazioni (Time Crisis, come la storica serie di videogiochi arcade). Tuttavia, nella scorsa puntata di Sheffield Vice si sono divertiti un po’ con un noto fuori legge, Mr. Agile Beast.

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Nato come “musica da cameretta” su Garage Band (solo Times New Roman era stata composta in precedenza), le undici tracce di "Good Cop Bad Cop" hanno preso vita nello studio privato di Matt Helders a Los Angeles, dove strumenti a percussione di varie epoche hanno trasformato un gioco sonoro in un degno album di studio caratterizzato da beat psichedelici soft, morbidi come l’elettropop che affiora leggero e che similmente decreta la sconfitta pesante delle chitarre dei Milburn, che si congedano flebilmente. È una versione casereccia dei conoscenti coetanei Tame Impala e Mini Mansions, mentre lo story telling è indubbiamente personale, definito da una scrittura pulita, diretta, a volte eccellente e poetica, povera di figure retoriche e con similitudini efficaci e inequivocabili: pensiamo agli spiritosi versi Oh, we’re Times New Roman and they’re Comic Sans / We’ve built our castle and all they’ve got is the sand di Times New Roman o a quella squisitezza artistica della prima strofa di Silk and Leather, accompagnata dal quel suono quasi impercettibile delle percussioni, quasi come una leggera pulsazione cardiaca percepita da un pollice su un polso:

We go together like silk and leather

Like heavy weather on a blue day

If you empty your mind, I will enter mine

Until we make a new shade.

In quanti ricorderanno questo lavoro a fine 2019? Diciamo che se fosse in un film di fantascienza, Joe “Good Cop Bad Cop” sarebbe nell’equipaggio della Dark Star e non nel Discovery One. Battuta da fan di Carpenter a parte, la complicità con Helders, l’attento studio di quella branca successiva all’indie degli anni zero di cui, seppur nella sua città, padroneggiava, la limpidezza della sua voce, la cui estensione lo porta a destreggiarsi in chiuse solennemente pop, fanno di lui una figura interessante del panorama indie inglese attuale. Quel giovane, con qualche pelo in più sul mento e con qualche rata del mutuo da pagare, non è più uno spigoloso soprammobile da spolverare a tempo perso mentre si canticchia Wonderwall: sta lentamente prendendo parte a quel fresco ramo ritmico che si nutre di una falda di colonne sonore di film cult.