Singularity Jon Hopkins 4 maggio 2018
8.4

Per quanto mi riguarda e secondo i pareri riscontrati in giro direi: missione compiuta.
Le esperienze allucinogene e qualche serie tv di troppo (forse) hanno contribuito e alimentato l’ispirazione per questo ultimo prodotto del compositore/dj/producer inglese Jon Hopkins. “Mission complete” perché questa volta, con "Singularity", pubblicato da Domino Records, mette d’accordo un po’ tutti, dal Capo Nord a Capo di Buona Speranza della musica elettronica, preparando un equilibratissimo composto di ricerca e profondità del suono che di tanto in tanto si fa trascinare dalla cassa dritta, quella che aveva caratterizzato la sua consacrazione con "Immunity" nel 2013. Il Londinese classe 1979 si è svestito definitivamente dalla nomea di “raccomandato” che aleggiava sulla sua testa, dato il particolare legame che lo lega ad un certo Brian Eno (per chi non lo conoscesse è uno dei mostri sacri della musica elettronica) che se lo è preso sotto la sua ala, portandolo con sé a collaborare in alcune produzioni.

Dal legame con Eno a quello con i Coldplay, il cognome di Hopkins è passato sempre un po’ in secondo piano, e con l'ultimo album pareva essersi consacrato e posto tra il ruolo di clubber e merito di ottimo compositore di colonne sonore. A tutto questo risponde con il primo brano omonimo Singularity, che spinge da far spavento con lenti arpeggi, drum-machine tutte distorte e una chitarra con livelli di eco pronunciatissimi, che generano una sorta di Big Bang, un esplosione fortissima che contiene dentro tutto il lavoro che poi l'artista ci proporrà nella prossima ora e quindici minuti. Da questa collisione sorge l’arpeggio di Emerald Rush, che accompagna un connubio tra pianoforte e qualche strano strumento medio-orientale verso il primo tratto in cui si può percepire un ritmo dritto scandito da cassa, charly e rullante (1, 2, 3, 4, ...).

Voci campionate avvolgono il primo germoglio “ballabile” dell’album, rimandando istantaneamente alla natura da “clubber” che ci aveva proposto con l’album precedente. È davvero complesso leggere il tutto, soprattutto perché il complesso viene creato da elementi e da funzioni semplici, come il gioco di volume che va a creare il beat di Neon Pattern Drum. Elementi semplici e altrettanti suoni “tradizionali”, alternati da suoni prodotti evidentemente dopo ore di reclusione in studio. La natura maniacale viene espressa e constatata di fatto dopo le prime 3 tracce per quanto mi riguarda, è dopo la tensione e il patos che va a creare con questa canzone che va a definirsi la linea che vuole tenere l’artista.

Nella figurazione ritmica di un lead-synth si incontrano la terza track e una delle più lunghe di tutte, si fa spazio e prende in mano la situazione Everything Connetted, brano che rimane molto legato al marchio di fabbrica del compositore, ascoltare per credere. La dissolvenza con un pedale gravissimo funge da macchinista che chiude per qualche istante il sipario, in modo da spartire il primo dal secondo atto del disco. La ripresa pare armoniosa, immediatamente un tappeto armonico di pad culla e rasserena l’atmosfera, dando sfogo all’animo e natura di pianista di Jon Hopkins, che si esprime nel viaggio ancestrale alla ricerca di chissà cosa; Feel First Life. Pare provenire dall’eden un eco di voci che si intreccia e danza, assumendo la parvenza di un mottetto di Johannes Brahms, che man mano si va ad amalgamare in un solo ed unico suono di sintesi, anch’esso utilizzato come ponte per condurre alla traccia seguente. Questo voler collegare ogni brano intriga, l’ultimo suono di una traccia è il suono da cui si plasma la traccia successiva, e dopo più di 40 minuti di musica ininterrotta il viaggio si fa interessante.

C O S M e Echo Dissolve si contrastano proponendo le due facce del compositore, rappresentando perfettamente il suo range, le sue vie di comunicazione, saltando dal totale utilizzo di macchinari analogici e digitali, al mix di synth leggeri che accompagnano esclusivamente i discorsi tra lui e se stesso o tra lui e qualcuno che non sapremo mai. L’ultima coppia di tracce, anch’esse interconnesse tra loro, assume la funzione apparentemente più “meditativa” dell’intero album, chiudendo con un apparente riassunto e rappresentazione nuda e cruda di quello che l’artista vuole proporre, sono la lunghissima Luminous Beings e Recovery.

È strano esaurire un intero lavoro di un’ora e quindici minuti con un brano di piano solo, nel quale solo nell’ultimo minuto di riproduzione si torna a sentire qualche sonorità digitale. La ripresa mantiene fedele l’esecuzione allo strumento dell’artista, si sente tutto, dal piede che preme o meno il pedale al quasi inavvertibile tatto con la tastiera bianca e nera. Negli ultimi secondi però, durante la dissolvenza, il suono del pianoforte va gradualmente a rarefarsi, ma non ad esaurirsi. È bellissimo e curioso, soprattutto necessita di una enorme attenzione, il fatto che l’ultimo suono che viene prodotto nell’album, è lo stesso che lo introduce. Magari non si è fatta attenzione ma, riprendete in mano Singularity e ascoltate i primi e gli ultimi 3 secondi…

La musica elettronica è il miglior mezzo per esprimere la ciclicità, la tecnologia è in assoluto l’unica arma che ogni musicista ha per ripetere e mettere in loop un determinato frammento e riprodurlo perfettamente uguale infinite volte. Se ne fa quasi abuso, e uno dei pionieri di questo “copia e incolla” infinito è proprio una delle menti ispiratrici di Hopkins, il compositore già nominato in precedenza Brian Eno. Trovo interessante però utilizzare questo mezzo per esprimere la singolarità, questa costante che nell’epoca più individualista continua a fuoriuscire ed essere messa in discussione.

In conclusione, dell’aspetto tecnico e sonoro è indiscutibile la malattia, raffinatezza, attenzione al particolare e bravura di Hopkins, che propone in un periodo in cui pochi si fermano ad ascoltare un album e non a consumarlo, un prodotto del genere.
Un artista dal mio parere, non cambia, ma si espande, estende le proprie capacità sensoriali e tecniche, che si mutano poi in nuovi canali espressivi. Non credo che periodi di meditazione e visioni ancestrali abbiano cambiato lo stile compositivo e la persona quale è Jon Hopkins, ma in altro modo gli hanno consentito e permesso di addentrarsi, attraverso un suo personale lavoro, all'interno di nuove dimensioni sonore, di esprime, in un determinato modo, la propria parola.