La scena si apre con i nostri due protagonisti padroni di una di quelle ville iper moderne sulle colline di Hollywood. Contorni spigolosi, linee minimaliste, grandi vetrate che scorrono lungo i lati della casa, da cui entra la luce rosea e lattiginosa di un tramonto su una Los Angeles calda e invasa dalla foschia, piscina blu a pelo di terra, palme che si innalzano ai lati del vialetto che conduce all’entrata, una vecchia macchina sportiva tenuta con la massima cura e coperta da un telo bianco riposa inutilizzata nel garage. I nostri due protagonisti sono Josh “J” Lloyd-Watson e Tom “T” McFarland, duo britannico che artisticamente si presenta al pubblico con il nome Jungle, nome con cui battezzarono anche il loro pluristellato debut nero e giallo del 2014. Per l’attesissimo ritorno, For Ever (XL Recordings, da leggersi Jungle For Ever), si invertono i colori della copertina, il giallo sostituisce lo sfondo nero, come per sancire cromaticamente il cambio di setting in cui è stato scritto e registrato il nuovo disco. Infatti, i due si sono spostati dalla umida e piovosa Shepherds Bush di Londra alla più soleggiata e mite città californiana degli angeli, Los Angeles, dove inseguire il Grande Sogno Americano. Però non è tutto oro quel che luccica.

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I Jungle nonostante siano sempre immersi nel grande oceano indie, fanno parte della deriva funky, perciò prevedono basi molto ritmate, incalzanti, non-stop, basate su pochi suoni ripetuti, groove che ti prendono e non ti lasciano più andare, che all’orecchio appaiono tremendamente glamour e vintage. Per questo delle 13 tracce ne ho selezionate una manciata per sintetizzare l’essenza di questo disco. Tracklist che parte con Smile, la sveglia, che ha il suono dei balconi che vengono spalancati quando il sole è già alto e buongiorno mondo. “Let the signs / let the signs lead the way” canta una voce acuta a cui in seguito si accosta un vocalizzo interminabile, mentre nel background continua a correre implacabile un rolling di batteria. Un inizio luminoso, speranzoso, pieno di energia, una di quelle colonne sonore per sentirsi il re del mondo. Manca solo accompagnare il tutto con un primo piano sui piedi di qualcuno che in preda alla musica e all’euforia ruotano su sé stessi e si danno alla pazza gioia. In sottofondo, una vecchia tv proietta in rotazione uno spot dai colori patinati e ultravioletti di un marchio di noodles preconfezionati e pronti per essere infilati nel microonde. È questa l’immagine che mi fa scaturire in testa il “One day she'll take the world from you”, motto rosa e femminista che dà il via a Heavy, California. Un suono televisivo che corona il più classico funk in salsa Jungle, allegro, ballerino e irresistibile. Happy Man è il naturale proseguimento della giornata, con uno dei nostri protagonisti al volante del proprio bolide mentre sfreccia tra i boulevard lussuosi su cui si innalzano al cielo palme chilometriche con il sole a baciare la fronte e le braccia lasciate scoperte da una fantasiosa camicia hawaiana. Leggiadro, lo definirei. Solare, ma solo nella facciata ritmica: “Buy yourself a dream, how's it looking? / Buy yourself a car and a house to live in / Get yourself a girl, someone different /Buy yourself a dream and it won't mean nothing”. La doppia faccia di Hollywood: l’ostentazione e la falsità, la città dove tutti vanno in cerca dei propri sogni, ma molto spesso sono costretti a rinunciarvi.

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La dura realtà contro la quale si sono imbattuti anche i due produttori J e T e di cui hanno permeato tutto For Ever. L’esempio lampante di tutto ciò è House in LA, proseguo al tramonto della canzone precedente. Si parte con delle note di piano a cui si aggrappano una batteria elettronica, archi e synth, che danno un tono più placido e pacato al disco, trasportando in modo molleggiato, grazie al finale dato dal rumore di un elicottero in volo, verso i colori della notte. A detta dei due a Billboard, la canzone è stata una delle più difficili da scrivere in quanto nasce da un cuore spezzato: “It’s an interesting concept of how falling in love and falling out of love can essentially be the same nervous feeling”. La notte si tinge di blu, e a farle da colonna sonora intervengono Cherry e Casio, i pezzi, a mio parere, migliori dell’album. Entrambe caratterizzate da bassi vellutati e avvolgenti, che le rendono due canzoni terribilmente sexy e notturne. La prima deve la sua sensualità anche alle sue scale elettroniche e al suo testo sfrontato: “You never gonna change me / I was already changin’”. La seconda invece ricorda più le ipnotiche hit da dancefloor anni ’70, da Sade a CHIC, con tanto di riff in stile Nile Rodgers, però modernizzate e ridotte all’osso, su cui gli unici movimenti concessi sono alzare le spalle e schioccare le dita. Manca solo un bicchiere di whisky ricolmo di ghiaccio a concludere il tutto. Si spengono le luci della festa su Give Over, un tripudio di archi ammodernati attraverso l’uso di sintetizzatori che con i loro beat la fanno virare quasi all’R&B. Cala il sipario, buonanotte.

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For Ever non ha il vigore del suo antecedente, ma nonostante quella che potrebbe essere presa per monotonia funky, risulta essere un ottimo secondo lavoro, costruito nel minimo dettaglio. Melodie solo all’apparenza ripetitive, che nel giro di pochi ascolti diventano, come direbbero gli inglese, “catchy as fuck”, che riescono a conquistarsi le rotazioni imperterrite di BBC Radio 6. Molto più personale del debut, il disco mette in musica la disillusione del sogno americano, il crudo scontro con lo sgretolarsi delle proprie speranze e dell’amore, ma mai risultando pesante o troppo cerebrale, anzi, risultando per l’appunto soleggiato, positivo, ottimista. Personalmente ciò che più apprezzo del disco è l’immediato impatto visivo che suscita nell’ascoltatore (sono solo io a pensarlo?): fin dalle prime note ci si trasporta all’interno di una location ben precisa, in California, al sole, fa caldo, si immaginano gli attori e la storia. Non a caso i due produttori hanno recentemente dichiarato a Soundwall che per loro “la musica è molto legata a emozioni visive”. Un sequel, una produzione hollywoodiana indipendente, accompagnato da beat, cori e ritmiche classiche che non delude, anzi invoglia a gustarsi già la parte tre.