Guy Walks Into a Bar... Mini Mansions 26 luglio 2019
8.0

Contribuire all’ecosistema musicale formato da affermati colossi delle scene comporta, oltre ai vari benefit del caso, anche che si corra molte, anzi troppe volte il rischio di venire offuscati dall’entità di rilievo a cui si fa capo, finendo per essere semplicemente ed impulsivamente etichettati come il side project del determinato gruppo di riferimento. Un destino che, nel bene delle esposizioni mediatiche o nel male dei diretti paragoni, ha sempre perseguitato anche i Mini Mansions, in maniera però esponenzialmente cubica: in parte germoglio dei Queens of the Stone Age (dove Micheal Shuman, voce e chitarre dei Mansions, suona dal 2007 il basso), poi catalizzati attraverso l’esperienza di performance dal vivo con i Last Shadow Puppets (per il tastierista Parkford e il bassista Dawes) e più recentemente con gli Arctic Monkeys (solo Parkford). In pratica quindi sì, ogni membro di questo gruppo californiano sotto esame possiede un curriculum più che invidiabile; tuttavia, al di là di riferimenti, citazioni e sporadici omaggi sonori, i Mini Mansions hanno ben poco di secondario, ancillare o marginalmente complementare rispetto ai gruppi con cui vengono per forza di cose affiancati: è una band decisamente a sé stante, con proprio sound, immagine e, volendo, anche senso dell’umorismo. Non a caso, a riconferma di questa marcata identità corre in soccorso il loro ultimo album Guy Walks into a Bar…, dove il trio decide di giocarsi il tutto e per tutto mettendo sul tavolo del banco il loro lavoro più accessibile e allo stesso tempo personale, affilando le distintive atmosfere sospettosamente cupe dei due album precedenti con elementi caratterialmente più pop synth rock.

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Malgrado Guy Walks into a Bar…  incominci subito gettando le premesse per l’incipit di una qualsiasi battuta appartenente all’omonima categoria e creando una sorta di aspettativa per una punchline che non arriverà mai, si trasforma ben presto nella narrazione di una relazione sentimentale avuta dallo stesso Shuman, scandita attraverso tutte le sue fasi dallo speranzoso prologo all’epilogo facilmente prevedibile a cuori infranti, formando così il nucleo intorno al quale ruota tutto il disco in veste non ufficiale di mezzo concept album. Tematica che ovviamente a colpo d’occhio non risulta particolarmente interessante o quantomeno originale, ma che anzi sembra un passo indietro rispetto al più onnicomprensivo esistenzialismo del precedente The Great Pretenders; ciononostante dove vien meno la creatività tematica, a farla fortunatamente da padroni sono gli arrangiamenti di questi undici brani proposti, che, rispettando i cardini stilistici dell’estetica Mini Mansions, infestano i meandri più bui del fantomatico locale extra dimensionale a cornice della scena con sonorità complici dell’ormai raggiunta maturità creativa della band ed allungate in miscugli alcolici frutto di monologhi, risultanti in un cocktail affabilmente “pop” ed asintoticamente un po' Agitation Base Hotel & Casino (touché a doppio taglio riguardo il discorso introduttivo sui paragoni tra i Mini Mansions ed altre band).

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La narrazione si apre lungo le note di Should Be Dancing, opener fantastica in grado di definire il mood di tutta l’opera: la gonfia chitarra che scandisce il tempo insieme ai pulsanti battiti dalla batteria (con il contributo tra l’altro di John Theodore dei Queens of The Stone Age) a margine degli eleganti giri di basso intrecciati con le tastiere e synth di Parkford, mentre le parole trascinate da Shuman spingono l’ascoltatore verso l’ingresso a spirale dell’effimero bar.
Due rapide occhiate agli interni e parte il vertiginoso delirio euforico di Bad Things (That Make You Feel Good), capostipite di una serie di brani spigliati, veloci e ambasciatori di un’alleanza tra il synth rock e l’indole pop citata sopra, tale da renderli istantaneamente contagiosi nella loro apparente semplicità strutturale (vedi I’m in Love e l’ingenuamente simil Sparks Forgot Your Name). L’indubbia carica di questo branco tripartito potrebbe anche distogliere l’attenzione da altre tracce più cadenzate, ma il contro bilanciamento mosso da quest’ultime evidenzia un buon equilibrio lungo i tre quarti d’ora ricoperti dall’album: il basso protagonista di Works Every Time e il drop di Living In The Future non hanno nulla da invidiare alle loro controparti, così come la vocalizzazione della telefonata tra i Mini Mansions e Alisson Mosshart dei Kills in Hey Lover, dove un preciso crescendo spinge il brano e la narrazione stessa della trama latente verso ritornelli quadri-sillabici, culminanti solo in seguito nell’epilogo di Tears In Her Eyes. A metà strada tra i due schieramenti si trova pure la disco-spaziale-cool GummyBear, sintesi delle qualità distintive di entrambi tra fattore catchy e ritmo più pacato. A non passare invece a pieni voti sono Don’t Even Know You e Time Machine, eccessivamente squilibrate da quelli che possono essere i lati negativi del loro quieto gruppo di appartenenza: troppo sfumate, poco mordente, specialmente la prima tra le due.

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Guy Walks into a Bar… è, in sintesi, l’ennesima dimostrazione della capacità di tre professionisti di ritagliarsi uno spazio proprio e distintivo all'interno dell'universo formato dagli altri colossi di appartenenza: i Mini Mansions sono riusciti a raffinare il proprio sound, ampliandone maggiormente gli orizzonti grazie alla diversa struttura delle tracce, nonostante il fattore concept dell'album non risulti originale o particolarmente avvincente e di conseguenza sia facilmente trascurabile. La voluta mancanza di una metaforica punchline dal titolo rappresenta comunque appieno, come vagamente accennato dai tre puntini di sospensione, l'andamento duale dell'umore del disco, a volte esuberante, altre più riflessivo, in una cornice dove il synth rock incontra e fa pace con gli aspetti più apprezzabili del pop.