Buoys Panda Bear
6.8

Ci sono il noto e l’ignoto, e in mezzo c’è Panda Bear

Non ricordo che la citazione fosse proprio così, ma credo che la sostanza non cambi: Panda Bear vaga(va) in territori inesplorati, Panda Bear prende(va) la regolarità, la normalità, assumendo che esista, e le ribalta(va) da capo a piedi. Panda Bear salta(va) nel vuoto quando tutti gli altri si aggrappa(va)no saldi alla terra ferma.

Ma facciamo un passo indietro: Panda Bear, Noah Lennox, ha pubblicato il suo ultimo album solista, "Panda Bear Meets the Grim Reaper", nel 2015; da allora ha lavorato con la sua band, gli Animal Collective, a "Tangerine Reef", il loro undicesimo lavoro. Il terreno che si era preparato non poteva essere migliore: "Grim Reaper" era (ed è tuttora) un album stratosferico, un connubio di stili e sonorità diversi, sapientemente accostati dal genio di Lennox, che negli anni è sempre riuscito a reinventarsi, ricercare, sperimentare. Così si permetteva di produrre brani di pochi secondi, come Davy Jones’ Locker, ed inserirli accanto a monumentali svarioni sonori di 7 minuti con una coerenza strabiliante. Dal canto loro, gli Animal Collective con "Tangerine Reef" avevano navigato in acque note e, pur non avendo creato un capolavoro, erano riusciti a sfornare un lavoro di tutto rispetto.

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Fast forward ai miei tempi verbali imperfetti iniziali: immaginiamo la carriera solista di Panda Bear come un romanzo all’interno del quale ogni album è un capitolo; un incipit, Panda Bear (1998), di quelli che ti tengono attaccato al libro, con il fiato sospeso. Una storia, unica nel suo genere (che poi, quale genere?), la cui trama si infittisce album dopo album: Lennox introduce l’elettronica, le ritmiche sincopate, gli effetti sonori, sa come stuzzicare l’attenzione. Se "Panda Bear Meets the Grim Reaper" è la scoperta dell’assassino, quel bacio che si è fatto attendere per l’intero romanzo, il “Io sono tuo padre” della storia di Panda Bear, "Buoys" (Domino Records), il suo sesto lavoro solista, è il finale (per ora) che lascia con l’amaro in bocca.

Non so dire se la magia di Panda Bear si sia spezzata, se abbia perso lo smacco, certo è che Buoys (boe) sono quelle che ha gettato per tenersi ancorato a sonorità assolutamente poco originali. Del suo stile rimane la ripetitività, quel ritmo che con gli anni è diventato un marchio di fabbrica di Lennox; se prima però era un’arma, uno strumento per trascinarti dentro il brano e tenerti incollato, immerso nella musica, qui diventa pura monotonia. Unico vero grande protagonista dell’intero lavoro è l’autotune. Sì, l’autotune.

Fermiamoci un secondo: si tratta di una scelta artistica e in quanto tale non si può mai sindacare. Una scelta artistica con la quale, però, non mi trovo d’accordo; non si tratta solo di gusto personale, ma piuttosto di una questione di limiti: e se Panda Bear, nel tentativo di nobilitare lo strumento più bistrattato, più criticato, di sempre, si sia autoimposto dei confini entro i quali muoversi per questo nuovo album? Il dubbio mi sorge spontaneo quando, dopo aver fatto un uso massiccio dell’autotune per quattro brani, Lennox inserisce un pezzo, Inner Monologue, che cambia rotta, che ricorda uno degli Untitled di Young Prayer o addirittura O Please Bring Her Back dal suo primo album, e funziona. Funziona davvero bene. In un album come "Buoys", Inner Monologue dimostra che Lennox non ha appeso gli strumenti, quelli classici, al chiodo, è la riprova che ci può essere ricerca e sperimentazione anche nella semplicità di un arpeggio di chitarra. In questo caso anche l'autotune appare come uno strumento vero e proprio, armonioso, al posto giusto. No, Panda Bear non ha perso lo smacco.

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"Buoys", già dal primo singolo Token, è ripetitivo, certo, e ripropone la stessa ritmica, la stessa chitarra, per almeno cinque brani, dando l’impressione che, più che pezzi separati, si tratti di una singola canzone spezzata. Si dice che la hit perfetta duri circa 3 minuti e mezzo, ma Lennox non è certo il tipo da affidarsi a questo genere di supposizioni. Non è affatto la prima volta in cui Panda Bear può essere definito “ripetitivo”: prendiamo Mr Noah o Boys Latin, dal pluricitato "Panda Bear Meets The Grim Reaper"; non c’è alcuna connotazione negativa nel dire che si tratta di brani ripetitivi; sono pensati per essere meccanici, ma sono forti, hanno carattere. In Buoys, al contrario, lo stesso meccanismo non genera stupore.

Forse è arrivato il momento di smettere di sparare sul pianista, perchè dopo un inizio decisamente in sordina, che include una Cranked arricchita di spade laser e Space Invaders (non scherzo), troviamo I Know I Don’t Know, un buon moodsetter per entrare nelle atmosfere sperimentali di Panda Bear. Parliamo sempre di uno “sperimentale” piuttosto limitato, ma a me un minimo di speranza l’ha data. La traccia che dà il titolo all’album è sicuramente la più originale, pur con il solito ritmo di chitarra ed una buona dose di autotune, e sfocia nell’unico momento intimista di "Buoys", Inner Monologue, forse il mio brano preferito all’interno di questo lavoro. Panda Bear entra ed esce dal loop di chitarre che lo accompagna dall’inizio del disco anche nelle ultime due tracce, Crescendo ed Home Free.

"Buoys" è come emozionarsi per aver toccato il soffitto con un dito sapendo di aver già raggiunto, in passato, la Luna. Forse il mio problema è che non apprezzo le premesse dell’album, l’autotune in primis, per questo consiglio vivamente di ascoltarlo, magari anche un paio di volte, prima di farsi un’idea sbagliata della strada che Panda Bear ha imboccato. Personalmente avrei voluto sentire Lennox prendere il volo, staccarsi dalla sua ancora e tornare a navigare. Fuor di metafora, ho faticato a trovare, ammettendo che io lo abbia trovato, un motivo per ascoltare nuovamente l'album, semplicemente perchè, a parte un paio di eccezioni, prosegue senza lode e senza infamia. Resta la curiosità di vedere che cosa si inventerà poi, quali mondi esplorerà, quali realtà vorrà svelare, perchè in fondo il barlume di genialità, anche se oscurato dalla fitta coltre di autotune, è rimasto.

Panda Bear