Moth Boys Spector 21 agosto 2015
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Son passati tre anni da quella che è stata la mia conoscenza diretta con una band britannica alle prese con la scalata per il successo. Non ci sono andato direttamente a letto ma ho avuto occasione d’innamorarmi di uno stile, di un suono che solo loro riuscivano a produrre: gli Spector e i loro occhiali da nerd, capelli leccati da una mucca, giacca e cravatta.

Enjoy It While It Lasts, il loro primo lavoro, presentava una band aggiornata con le tecniche musicali quali synth, per esempio, ma che manteneva uno stile e un portamento tipico del passato. Ecco perché se uno ascoltasse l’album non smetterebbe di ballare all’impazzata trasportato da una voce particolare, quella di Frederick Macpherson, che difficilmente preferisce la ballata melodica al casino. La difficoltà, in questi casi, sta nel mantenere uno stile o, ancora meglio, evolverlo. La seconda fatica ha portato dei pro, ma purtroppo anche dei contro, a mio parere disastrosi.

Moth Boys si presenta con una traccia di lancio, titolo preso da una storia di Fitzgerald, dal nome All The Sad Young Men: l’aria da “non c’interessa se vi piace o meno” tipica dei primi tempi è scomparsa. Si è arrivati al mainstream da “vogliamo farci conoscere oltre la Manica”. Come ragionamento può starci, se non fosse che poi l’album, maturato dopo tre anni, risulta monotono e ripetitivo salvo alcuni casi.

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Le melodie sono sempre le stesse, formate da un ritmo quasi elettronico grazie alle tastiere ma che non ha niente a che fare con le canzoni da pogo del primo LP. Quello che a mio parere si può salvare sono innanzitutto i singoli usciti per presentare l’album: il prima citato All The Sad Young Men, Stay High e Don't Make Me Try, che ancora mantengono quell’atmosfera del 2012 che li rendeva fieri e felici della loro carriera. Per quanto riguarda il dark side del nuovo disco (non considerando i singoli di lancio), è possibile notare rari casi di “ehi ragazzi, che ne dite se oltrepassiamo i tre accordi e ne aggiungiamo un quarto?”: si parla di canzoni come Kyoto Garden che, seppur si avvicini ad uno stile scozzese come quello dei Chvrches, fa notare quanto ci sia stata una maturazione complessa alle spalle. A far ottenere ancora qualche punto è Decade of Decay che, con le sue atmosfere synth alla Depeche Mode, fa ritornare la mente in quella che poteva essere una discoteca anni settanta in cui o si pippava o si ballava. E basta.

A volte la vera sorpresa sta alla fine dell’album, nell’ultima traccia che inizia magari molto tranquillamente per poi esplodere in un virtuosismo quasi eccessivo. In questo caso la storia è proprio andata così: cinque minuti di canzone, Lately It’s You, che sfociano da una litania quasi noiosa in un utilizzo di assolo di chitarra elettrica come a suggerire che sì, si ricordano come suonare.

L’ultimo album non è da bocciare, ma sicuramente nel loro futuro ci si aspetta un esame di coscienza che faccia capire che a volte il successo non è tutto e che mantenere un’identità vale di più di un disco di platino. Frivolamente parlando, da bocciare è il nuovo look adottato dal frontman: dalla leccata di mucca si è passati a capelli lunghi fino alle spalle tenuti, tra l’altro, male. Non fai parte dei Tame Impala, grazie.