Palazzina Liberty L'Officina della Camomilla
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Io odio la musica italiana. Accendente la radio e cosa trovate? I soliti nomi che girano da anni, le solite ritmiche, le solite parole. Allora cerco di sentire qualcosa di alternativo. Il risultato è ancora peggio: un“Io, te e Carlo Marx” 2.0 e testi volutamente e velatamente radical chic che invano tentano di riportare in auge i vecchi tempi passati e il ‘68. Rassegnata mi rifugio direttamente nei vecchi tempi con i buoni vecchi cantautori: Battisti, Gaber, De Andrè. Ma un giorno, casualmente, mi passa davanti agli occhi un nome curioso: L’Officina della Camomilla. Un nome allucinante, dissonante e poetico che è riuscito a catturare la mia attenzione in un lasso di tempo troppo corto per essere descritto da un secondo. E fu amore.

Francesco De Leo e la sua quasi del tutto rinnovata formazione ci aprono le porte della Palazzina Liberty e tra 13 stanze ed anfratti ci portano a scoprire la nuova svolta del gruppo. L’ascoltatore viene accolto all’ingresso da uno dei tanti intermezzi strumentali che si accavallano tra le canzoni: Intro Omny, una piccola fila di note oniriche che mi hanno subito fatto ricordare Parnassus. Che mi aspetti un mondo di scarpe e perle dietro la porta? Il primo vero pezzo è quello che dà il nome al disco: Palazzina Liberty. Fatti due passi si può già capire che i toni naive della trilogia “Senontipiacefalostesso” sono stati tolti dalle pareti e rimpiazzati da uno stile indie inizio 2000 (chitarra alla Strokes per capirci). La mia visita somiglia più ad un percorso accidentato in un labirinto, infatti per la terza volta il ritmo cambia e mi trovo davanti ad Underpass, 30 secondi di New Age elettronica e meditazione Zen. Faccio poi l’incontro di Penelope, una lenta ballata, che nello stile dell’Officina sembra un’accozzaglia di parole nonsense, ma dopo il secondo/terzo ascolto si riescono ad estrapolare dal testo minuscoli aforismi (“Il tempo di Penelope sconfina in altre epoche”) mescolati al violino, una delle nuove comparse tra i nuovi membri. Improvvisamente mi si para davanti Exit, il terzo stacco dalle percussioni sintetiche ma tranquillizzanti, la sonorità da lounge bar. Da qui si accede alla sala da ballo in cui risuona un waltzer acustico: Mio Fior Pericoloso, su cui ad ogni cambio di accordo giriamo in punta di piedi attorno alla stanza. Inaspettatamente diventa tutto buio e s’accendono le luci stroboscopiche, parte Triangolo Industrial, un’elettronica martellante, capace di spaccarti la testa, degna di un rave. Capisco che questo disco sia tutto un grande esperimento sonoro con cui Francesco vuole raccogliere i rumori delle città e delle metropoli, ma, nonostante gli sforzi, non riesco a far a meno di uscire, a metà pezzo, da questa stanza per salire al secondo piano.

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In cima alle scale della palazzina mi accoglie Ex Darsena, con cui si torna alle ritmiche alternative iniziali: la batteria è più presente, il basso si sente, le atmosfere sono più allegre. Ad “Ex Darsena, perla antartica” mi convinco che anche la voce di De Leo è cambiata e più simile a quella dei colleghi anglosassoni: più sporca, quasi ovattata e un po’ trascinata. L’oscurità ritorna ad inghiottire tutto e il corridoio che si staglia dritto davanti a me è composto da suoni deliranti: Macchina Metallica mi fa tornare alla mente i video industriali di Lynch, che non ho mai capito e mai capirò. Per fortuna il frastuono termina veloce, lasciando spazio a Soutine Twist, ex lavoro solista, che raggruppa centinaia di rapide parole tratte da un articolo di giornale sulla scomparsa di una ragazza nel parco di Monza, il tutto accompagnato da una chitarra e un violino dai toni parigini. Si spalanca poi una finestra da cui entra il rumore del vento e le melodie di Noise sull’Oceano. La traccia è una delle più lunghe da cui si può cogliere l’intento della band di esprimere qualcosa di più orchestrale e sci-fi (a detta del cantante), in cui risulta difficile distinguere tutti i vari strumenti. La gita è quasi finita e la tristezza viene riflessa negli specchi della Signora del Mare, un pezzo lento e malinconico che però non poteva chiudere un album che a differenza dei precedenti non vuole essere un canzoniere, ma una raccolta di suoni strani, contorti, oscuri. Concludiamo il nostro pellegrinaggio nella mente di Francesco De Leo sul terrazzino chi ci apre ad Altri Posti, 7 minuti di sonoro esotico che mi trasportano subito sulle coste spagnole d’oltre mare.

Le palazzine sono, in genere, edifici grandi, in cui alcune stanze sono perfette così come sono, alcune sono solo da ridipingere, altre sono da ristrutturare completamente. Il quarto lavoro dell’Officina della Camomilla denota una nuova direzione, in cui si stagliano luci e ombre, pezzi che al primo ascolto ti prendono e non ti lasciano più e altri di cui faresti volentieri a meno, ma cosa volete, forse sono solo io che ascolto musica orrenda, ribalto i poeti e salto la cena, ma soprattutto non ho voglia di vedere nessuno.