Human Ceremony Sunflower Bean 5 febbraio 2016
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Ci siamo incontrati casualmente il 22 novembre dello scorso anno. L’occasione era il concerto dei Vaccines a Londra, aprono i Sunflower Bean, giovanissimo trio proveniente da Brooklyn. Suonano una mezz’ora mescolando canzoni dal sapore cupo e retrò, proiettate nel 2015 direttamente dagli anni ’70. Mi colpirono per la bravura, ma soprattutto perché a fine performance, come se suonassero nell’auditorium della scuola, si arrangiarono a togliere tutta l’attrezzatura dal palco. Due mesi dopo casualmente mi si parò davanti una loro intervista per Rolling Stone e un articolo di NME in cui erano tra le band emergenti da tenere sott’occhio.

L’album di debutto si intitola "Human Ceremony", 11 tracce che hanno ricevuto ottime recensioni unanime e che il gruppo descrive come un immagine presa da un libro alieno raffigurante i terresti. La prima traccia che parte è quella che dà il nome all’album, una chitarra pulita fa tornare alla mente le vecchie canzoni rock, quelle che hanno fatto la storia, in cui lo strumento è il protagonista indiscusso, a cui si aggancia la voce femminile di Julia Cumming, raggiunta poi nel ritornello dall’eco del collega Nick Kivlen. La chitarra si fa più sporca e la batteria di Jacob Faber introduce Come On, un pezzo che mi ricorda il punk dei Ramones e le canzoni di Blondie: Debbie Harry e Julia condividono le stesse esperienze, la cantante infatti oltre ad avere una band è già comparsa tra gli scatti della nuova collezione di Saint Lauren. Il suo giro di basso è tra le prime note di 2013, una melodia che richiama la buona vecchia New Wave dai colori scuri. Si prosegue con uno dei pezzi utilizzati per lanciare la band: Easier Said in cui la modella/cantante ripete con una voce tenue e dolce ciò che almeno una volta alla settimana ci passa per la testa: “Easier said than done”. Come in un magico trip in cui a tratti ci sembra di gelare e a tratti scottiamo, il gruppo alterna canzoni tranquille e miti a pezzi irrequieti e secchi, come This Kind of Feeling.

Jacob Faber, Julian Cumming, Nick Kivlen

A metà album si può già dedurre che i Sunflower Bean quest’anno verranno inseriti nel filone di quell’indie non più “ingenuo” e spensierato, ma più pensato, dai ritmi più maturi e scuri, e che insieme ai Wolf Alice potrebbero creare una nuova generazione di frontman tutte al femminile. Con la sesta traccia, lasciano per un momento da parte la cupezza per un’atmosfera più estiva, I was Home, a metà tra il CBGB e Rockaway Beach. Le note tendono a questo punto un po’ a ripetersi (non dimentichiamoci che l’album ha richiesto un anno e mezzo, intervallando questo ad una carriera nella moda per Cumming e un lavoro al cinema per Kivlen); Creation Myth parte con l’ormai caratteristica chitarra del riccioluto Nick che però verso la fine si libera trasformandosi in una manciata di secondi strumentali usciti da un disco dei Black Sabbath. Uno dei pezzi più corti dell’album è Wall Watcher, le cui parole inquietanti sono accompagnate da un altrettanto inquietante video in cui le lancette corrono all’impazzata e la componente maschile tenta miseramente di truccare quella femminile. I Want You to Give Me Enough Time porta un po’ di dolcezza, una ballata dal sapore statunitense, di quelle in cui negli anni ’70 si vedeva lei e lui guardarsi nel palco con uno sguardo mellifluo e perdersi tra le parole. Nella penultima canzone Oh, I Just don’t Know, la band cambia drasticamente direzione, sterzando verso un pezzo composto solo da semplici arpeggi e voce. Come se non bastasse a disorientarci, cambiano un’altra volta strada, tornando sui loro passi, in cui la chitarra acustica viene accantonata e si preferisce quella elettrica da cui nasce Space Exploration Disaster, ultima traccia firmata quasi unicamente da Kivlen.

Tra i vari “One of the best indie bands to emerge” e “jangle pop perfection”, preferisco citare le parole dell’appena ventenne chitarrista: “One band of 20-year-olds making relevant rock music would be nice, wouldn’t it?”. Eh sì Nick, anche se questo non è il tipo di indie che preferisco, sarebbe carino veder emergere un gruppo di talentuosi ragazzi che conoscono e apprezzano la vecchia guardia e che sanno mescolare Blondie ai Black Sabbath, per dare vita ad un indie newyorkese tutto a sé. Sarebbe molto carino.