This Is All Yours alt-J 18 settembre 2014
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Quando in un esame capita una di quelle fortune che ti fanno credere che la dea bendata si sia messa a lanciare petali sulla tua strada, speri solo che non inizi a tirare sassi.

I triangolini del nostro cuor, all’indomani di An Awesome Wave, devono essersi sentiti all’incirca così (con, al posto di comunissimi colleghi e professori, il mondo intero pronto a deriderli per un sophomore non all’altezza).

Come se non bastasse, BAM, Gwil lascia il gruppo per cause personali (la nuova vita, gli è morto il gatto, chissà) e gli alt-J si ritrovano, in studio, a suonarsela e cantarsela senza nessuno che si occupi della nacchere. Sono ormai in tre, con Gus che si occupa delle relazioni col pubblico e finisce sull'LP per il quinto anniversario dell'Infectious Music, Thom che scambia la propria pelle per un quadro e Joe che continua a fare il cantante – e  a noi va bene così.

This-Is-All-Yours

Onde non lasciare il piacere del leak a qualche bravo hacker non appagato dalla nudità della Lawrence, l’applicazione TIAY ci permette di ascoltare la creazione del trio ancora prima che Spotify ci metta su le mani. Ci troviamo in un parco (anche se non è vero, perché possiamo falsificare la localizzazione GPS), premiamo play.

Intro è una canzone comoda: non dobbiamo neanche aggiungerla ai preferiti di last.fm: la neonata Intro è già lì a rubare il posto all’illustre antenata. Lalalala per tutti i 4 minuti e 38, la palese volontà di fare delle proprie voci degli strumenti musicali, Joe sibillino con citazioni dei Wu-Tang Clan e un che di orientaleggiante che fa da ponte tra Taro e Arrival in Nara. Da qui risulta chiaro che mettere a tacere le percussioni nella seconda traccia è ormai una dolce abitudine e che bastano un pianoforte ed una chitarra sommessa per gettarmi in uno stato catatonico al quale neanche La Valse d’Amélie era arrivata. Cinguettii, un fiume in lontananza, un ronzio d’ape nell’orecchio destro, Nara. Picco di angoscia con la campana in lontananza. Love is the warmest colour è una reinterpretazione di quel “Bleu est une couleur chaude” di Julie Maroh e all’He’s found me, my Aslan siamo proiettati, più che a Nara, Giappone, dove i cervi scorazzano liberamente, nella Narnia di This is all yours (passando attraverso i cappotti e le pellicce della nonna, atterrando nella neve gelida). Hallelujah. In Every other freckle i toni si fanno più spinti – non solo musicalmente. Noncuranti delle probabili denunce per stalking o per atti osceni in luogo pubblico con pacchetti di patatine, si lanciano in un jingle tribale che è la musica che ognuno immaginerebbe come sottofondo de La danza di Matisse. Jingle che al primo ascolto risulta passabile di denuncia ma che al cinquantesimo (iTunes parla chiaro) si arriva anche a canticchiare felicemente. Con Left hand free è stata perplessità a primo ascolto, essendo il mancato featuring con i Black Keys, la canzone che non ti aspetti, con quella linea di basso catchy e il virtuosismo di Gus. È il momento di (Garden of England) e, oh, quanto ci erano mancati gli interludi. Garden of England è uno spazio aperto, un giardino dell’Eden nel bel mezzo dell’album. Neanche fossimo gli Adamo ed Eva della situazione, veniamo cacciati da questo giardino per entrare nell’ansiogena Choice Kingdom, un inno che ha i toni caustici di Dulce et Decorum Est di Wilfred Owen e che candida il trio a prossimo gruppo a figurare in un matrimonio di Game of Thrones.

Giro di boa: Hunger of the Pine, più spiccatamente elettronica, che ha avuto l’onore di fare da apripista in veste di primo singolo, ha quel I’m a female rebel della Cyrus campionato da 4x4 che si fonde con la citazione di Alfred de Musset, con il ritornello e il falsetto in un crescendo che ci riporta ad An Awesome Wave. Vincono a mani basse. Se  Warm Foothills e The Gospel of John Hurt non smuovono il vostro animo, siete dei cuori di pietra. Le colline colpite dal sole di quell’idillio che è Warm Foothills si trasformano nelle curve, nei pendii che partono from the nape of her neck. È una ballata piena di tenerezza e grazie Marika Hackman, Conor Oberst, Sivu e Lianne La Havas, grazie. Per la decima traccia ci si immagina gli alt-J nello scantinato di Charlie Andrew, il produttore (grazie anche a lui, dato che siamo in tempo di ringraziamenti da Miss Italia), a registrare cori che sono statuari e – mi voglio rovinare – gloriosi. Dal minuto 4.14 chitarra, Coming out of the woodwork, Chest bursts like John hurt, Coming out of the woods e Gus che ulula alla luna in sottofondo sono l’apoteosi. Dopo cotanta magnificenza, Pusher – solo voce, una chitarra strimpellata e qualche accordo al pianoforte per gradire. Chapeau al signor Newman per le lyrics e per aver ampliato i nostri orizzonti ornitologici con il quelea becco rosso (che troveremo anche in Bloodflood Pt. II), ma l'inevitabile confronto di Pusher con le canzoni che la precedono e seguono forse non gioca a suo favore. Molto è lasciato ai synth e i riferimenti a Fitzpleasure e alla prima Bloodflood (e a 353, se le orecchie non mi ingannano) sono amalgamati in un’opera che inizia e finisce con il pianoforte. Bastano un c-o-double m-o-n, un a flood of blood to the heart e, ma sì, anche quel quelea quelea per capire che non c’è nessuno come gli alt-J in giro, qualsiasi direzione essi decidano di prendere. Leaving Nara è il modo in cui i tre si congedano. Non lasciamo soltanto Nara con passo concitato – correndo, prima che si sgretoli – ma anche quel mondo fatalmente piacevole che avevamo costruito nei faticosi 48 minuti e rotti trascorsi fin qui. Ci risvegliamo nel bosco nel quale eravamo o in quello che ci eravamo creati.

Poi c’è quella cover di Lovely Day di Bill Withers che ognuno si augurerebbe di avere gratuitamente nella propria libreria iTunes (capito, iTunes? Questa canzone, non Songs of Innocence). Altri 4 minuti nell’universo di This is All Yours e siamo davvero fuori dal labirinto.

In sintesi: nel modesto parere di chi vi scrive, gli alt-J hanno prodotto un album che nella varietà di stili, luoghi e paesaggi evocati trova la sua forza senza manierismi inutili, senza emulare la fatica d’Ercole precedente. Invece io, che prima di accingermi a stendere questa recensione mi ero detta “eh, questa volta imparziali, mi raccomando”, ho finito per scrivere un panegirico di This is All Yours (che mi rigiocherò in parte nella proposta di matrimonio a Gus Unger-Hamilton. O alla sua voce).

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