Viet Cong Viet Cong 20 gennaio 2015
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Ricercare strenuamente somiglianze ed associare a conoscenze ed ascolti precedenti. E’ questo ciò che la mia mente prova a fare ogni volta che il nome di un nuovo gruppo cattura la mia attenzione, durante l’infinito scrolling della home di Facebook, e che poi vado subito ad ascoltare.

E’ successo anche con i Viet Cong, band canadese etichettata come post-punk che mostra una certa tendenza per il guitar indie rock. Con la pubblicazione del primo album studio omonimo è riuscita, però, a costruirsi un’identità ben delineata. Il nome del gruppo, naturalmente, deriva dall'epiteto che i giornali vietnamiti diedero al gruppo di resistenza armata contro gli Stati Uniti ed i filo statunitensi del Vietnam, intenti a portare un po’ di sana democrazia nel Paese asiatico tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Viet Cong, letteralmente, significa “comunista del Vietnam”, ma non sembra che la band lasci trapelare un determinato orientamento politico attraverso la musica.

Quel che mi ha portato a voler recensire Viet Cong (Jagjaguwar / Flemish Eye; 2015) – album omonimo della band, come ho già detto – è stato sicuramente l’impatto esplosivo, ma anche un po’ implosivo, che Newspapers Spoons , prima traccia dell’album, ha avuto su di me. E anche se non vorrei ammetterlo per sembrare super radical chic, l’8.5 di Pitchfork e la nomina di Best New Music hanno sicuramente influenzato la scelta. Io non seguo Pitchfork, però. Tornando alla musica, il brano di apertura di Viet Cong – album molto breve, con le sue 7 tracce – è una miscela ben orchestrata di sonorità tutte diverse tra loro. Su un “riff” di batteria si appoggiano voci in coro, tra cui prevale quella di Matt Flegel (anche bassista). A questi si aggiunge uno stridio sonico la cui origine è un mistero per me, sebbene immagino derivi dal sintetizzatore di Scott “Monty” Munro (che suona anche la chitarra). Sintetizzatore che poi si addolcisce su echi synth-pop a chiudere il brano.

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E’ ancora la batteria, suonata da Mike Wallace, ad aprire la seconda traccia dell’album, assieme alle chitarre (il secondo chitarrista si chiama Daniel Christiansen). Il brano – intitolato Pointless Experience – sembra forse quello meglio “strutturato”. O meglio, quello strutturato più “classicamente” e che forse lo rende più vicino all’indie rock di respiro guitar. Meraviglioso il ritornello in cui le chitarre producono qualcosa che, sicuramente per ignorantia mea (fa più figo dirlo alla latina, in realtà sono io a non capire nulla di musica), non riesco ad associare a nulla che conosco. E’ un riff che si acuisce in crescendo, ma il timbro è di per sé particolarissimo. Passivo, Flegel fa il suo lavoro con il basso mentre canta “Failed to keep the necessary” (= Non sono riuscito a tenere il necessario), quasi a decantare un vangelo post-comunista ed anti-consumista che forse ci dà qualche dettaglio in più sulla scelta del nome della band. Avrebbe senso uno spirito antistatunitense, da canadesi, ma questo esula dalla trattazione.

E se le prime due tracce raggiungono a stento i tre minuti, March Of Progress – terzo brano del disco – tocca quota 6 minuti. Pezzo introdotto da pochi secondi di pseudo interferenza a cui si sovrappongono imperanti batteria e sintetizzatore. A questo punto si riesce ad intuire l’essenza fondamentale del disco. Una destrutturazione totale, con un miscuglio di generi ed influenze che caratterizza il genere del post-punk vero e proprio. Di solito, al post-punk si associa istintivamente la dimensione “gotica” alla Joy Division, ma è alquanto improprio farlo. A seguire la trafila drum&synth, spezzando e destrutturando la canzone, parte un simil-arpeggio di chitarra assieme alla voce cupa di Flegel, accompagnato da cori altrettanto oscuri. Con un’interruzione nemmeno troppo discordante – grazie ad brevissimo intermezzo di sintetizzatore – un riff di chitarra molto Tame Impala si inserisce nel pezzo che si chiude con la domanda “What is the difference between love and hate?” (= Qual è la differenza tra amore ed odio?). Non ne ho idea.

Altrettanto lunga, ma meno pretenziosa è la successiva Bunker Buster. Suonata in maniera sicuramente più tradizionale, per certi versi ricorda gli Slint – almeno nella prima parte – con quelle chitarre stridenti. Chitarre che si addolciscono per poi ritornare “arroganti” assieme alla batteria che aumenta notevolmente il ritmo e sfuma nel finale. Questa somiglianza post-rock non è una nota stonata, bensì incarna proprio il concetto di post-music.

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Traccia numero 5. Continental Shelf, è il singolo che ha anticipato l’album, uscito poco dopo l’EP Cassette, prima pubblicazione in assoluto. La canzone in sé segna un piccolo calo qualitativo, almeno rispetto alle prime tre tracce. La tendenza “aggressiva” si placa negli strumenti, invece aumenta nella voce di Flegel, che a tratti ricorda quella di Paul Banks. Su un “tappeto” ritmico di chitarra, il brano è tendenzialmente più armonico e strutturato. Sicuramente qualcosa che si potrebbe sentire in radio.

Ancora più lontana dalle atmosfere “heavy” del disco è Silhouettes, che, tra l’altro, è il secondo singolo estratto da Viet Cong. Il chitarrista Scott “Monty” Munro dà prova delle sue abilità col sintetizzatore, senza grandissimi risultati, ma ribadendo un altro elemento dell’album, finora messo in disparte. E le chitarre stridule si attenuano parecchio, lasciano spazio ad una parte ritmica molto più accelerata.

I due singoli, posti vicini nell’ordine della tracklist, sembrano quasi preparare ed ammorbidire il terreno per la traccia finale, Death. 11 minuti che riassumono tutto il senso del disco. Un intro tendenzialmente armonico, con un riff di chitarra semplice disteso sul basso e sulla voce di Flegel. Stop alla voce. Tre minuti circa di intermezzo strumentale che sembrano portare alla conclusione. Una conclusione che sarebbe priva di senso, quando ormai tutti gli strumenti si affievoliscono. Siamo appena a metà del brano, ed ecco che i Lightning Bolt fanno – idealmente – la loro comparsa nel disco. Chitarre e batteria in perfetta simbiosi regalano uno spazio noise-rock. Il brano ritorna sui suoi passi e gli ultimi minuti del disco sono prima una parentesi tipicamente post-punk per poi concludere in definitiva con gli stessi riff sconvolgenti uditi poco prima.

Alcuni hanno definito lo stile ed il genere dei Viet Cong come “labyrinthine post-punk”. “Labyrinthine” significa “complicato, tortuoso” o comunque qualcosa che ricordi un labirinto. Sono d’accordo. Se non si trova un filo conduttore il disco porta a smarrirsi. In realtà, non c’è esattamente una via retta da seguire per capire Viet Cong. Solo immergersi in un contesto di comp  leta post-destrutturazione. Le influenze del disco sembrano apparire anche nella copertina del disco, la quale, almeno per le colorazioni e le sfumature, ricorda quella di Spiderland dei già citati Slint. I soggetti delle foto sono però ben diversi. La copertina di Viet Cong raffigura due mani: una fasciata e l’altra intenta a rifinire le fasciature. Può intendersi come un riferimento alla guerra. Quasi certamente a quella del Vietnam.

 

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I Viet Cong saranno in Europa a febbraio per un tour che non farà tappa in Italia. Un nome troppo brutto per vendere? Chissà. Se dovessero riuscire a fare un salto nel Belpaese sarebbe curioso scoprire come rendono live.