C’è un momento esatto di Phonetics On And On in cui la vista si annebbia e le immagini fittizie, spesso fin troppo romanzate, dei ricordi prendono il sopravvento. Non importa che abbiate mai provato a imbracciare una chitarra elettrica come quella che Penelope Lowenstein inizia a strimpellare al minuto 1:27 di Julie. L’innocenza e la semplicità disarmante e anacronistica di quelle corde pizzicate vi riporteranno a una delle vostre prime volte infantili. Il giorno in cui avete tolto le rotelle dalla vostra bicicletta, quello in cui siete riusciti per la prima volta a fare una ruota o quattro palleggi consecutivi col pallone. Sono più o meno gli stessi pensieri che hanno avuto le Horsegirl nel momento in cui hanno messo piede per la prima volta a New York per iniziare il college.
Penelope, Nora Cheng e Gigi Reece hanno debuttato nel 2022 da giovanissime studentesse di scuola superiore con tutta la spinta e il rumore che nella maggior parte dei casi caratterizza quell’età. Version of Modern Performance, pubblicato per Matador, le ha catapultate in giro per il mondo. Ora, come ci racconta via Zoom la batterista Gigi, sono entrate nell’età adulta. L’università, un secondo disco da scrivere e registrare nel tempo della sospensione invernale delle lezioni e la voglia di guardarsi indietro per contare i passi compiuti, a coppie di due: due, quattro, sei, otto... Phonetics On And On è il negativo del loro debutto. Un progetto scevro di effetti, rudimentale, folk-pop, ma comunque rivoluzionario nei la la la dei suoi testi. Ad affiancarle in questo viaggio a ritroso, che le ha riportate fino alla fine degli anni ’70 e alla weirdness delle Raincoats, ci ha pensato Cate Le Bon che le ha spinte a sperimentare persino con i violini.
Inevitabile che per farlo, dovessero tornare nella loro Chicago, al Loft, lo studio di registrazione dei Wilco. Anche solo per sentire di riflesso la vicinanza delle loro famiglie e dei loro amici. Per viaggiare indietro nel tempo e ritrovare quelle melodie infantili apparentemente perdute e che, invece, nessuno di noi dimentica.

Avete scritto il vostro primo album quando frequentavate ancora il liceo. Phonetics On And On, invece, è nato durante il college. In che modo tutto questo vi ha influenzato?
Credo che la nostra musica sia cambiata di pari passo con le nostre vite. Rispetto al primo disco c'è chiaramente un cambiamento drastico, ma è stato naturale. Non abbiamo deciso a tavolino che il nostro sound sarebbe stato differente, è come se ogni cosa fosse andata al proprio posto senza sforzo. Oggi, col senno di poi, ripensandoci, questa cosa è ancora più evidente. Quello tra i diciotto e i ventidue anni, l’età che ho ora, è stato un periodo in cui cambiano tante cose e il tuo cervello si sviluppa in modi assurdi. È coinciso anche con le nostre prime esperienze di vita lontano da casa. Ci siamo trasferite in una nuova città, New York, molto diversa.
Per registrare il disco però avete scelto di tornare a casa, a Chicago.
Sì, facciamo spesso la spola tra Chicago e New York perché le nostre famiglie e molti dei nostri amici sono là. Durante la pausa invernale delle lezioni universitarie abbiamo siamo tornate per le vacanze e fino al termine del gennaio 2024 siamo stati in studio a registrare. Il Loft è un posto magico. Pieno di cimeli dei Wilco, un sacco di pianoforti, tastiere, sintetizzatori, un intero angolo di percussioni e scaffali pieni di pedali per le chitarre. Abbiamo curiosato molto in giro per provare più strumenti possibili. Cate (Le Bon n.d.r.) ci ha dato una grande mano ad orientarci. Avendo prodotto lì l’ultimo album dei Wilco, lo conosce molto bene.
Come siete entrate in contatto con Cate Le Bon?
Sognavamo di lavorare con lei fin da quando eravamo adolescenti. Le cose che produce sono fantastiche. Inoltre, avevamo questa sensazione che anche come persona ci saremmo trovate in sintonia. Abbiamo inviato un po’ di demo al suo manager: quando lei ha accettato siamo rimaste scioccate. Appena è entrata in studio con noi ci ha detto: «Dovete sperimentare con questi strumenti, con questi pedali, con questa chitarra…». Aveva le idee chiarissime e ci ha guidato.
I testi e le canzoni però li avete scritti a New York. In termini di esperienze di vita e anche di musica, quali sono le differenze con Chicago?
Questa è la domanda costante che ci facciamo in continuazione. In questo momento associo New York a noi tre e all’inizio dell’età adulta. In qualche modo è come se fossimo entrate nella vita “reale”. Rispetto a Chicago è molto più variegata ed è come se comprendesse più comunità al proprio interno. Quartiere per quartiere, le cose sono molto diverse. A volte, con così tante persone in una città, ci si sente sopraffatti, c'è un sacco di rumore ed è facile perdere se stessi. E credo che questo sentimento sia parte del nostro disco: sentirsi un po' isolati e soli mentre intorno a te c'è un mondo. Questa sensazione ci ha fatto ancora più fare affidamento l’una sull’altra.
La prima impressione ascoltando il vostro nuovo album è che sia molto meno rumoroso e con un sound molto più vicino al folk che al rock.
Sì, anche quello è frutto di una crescita. Da adolescenti il nostro marchio era la distorsione delle chitarre con cui volevamo occupare tutto lo spazio. Credo che questo sia stato molto importante nel nostro sviluppo come band: suonavamo per quindici minuti in concerti con otto band in cartellone, per cui dovevamo attirare l’attenzione e stupire tutti. Ora invece siamo in tour e suoniamo per gente che è lì per vedere noi e, quindi, sentiamo meno quella pressione e ci sentiamo di poter esplorare. Gradualmente abbiamo voluto ridurre le cose e abbiamo rivalutato il suono delle chitarre pulite, abbandonando le pedaliere. Quindi è stata una sperimentazione molto naturale, oltre che divertente.
Uno delle prime recensioni di Phonetics On And On che ho letto recitava: «Horsegirl are going Raincoats». C’è del vero?
Sono sempre state una grande influenza per noi. Il loro primo album è stato uno dei dischi con cui mi sono avvicinata alla musica e che poi è diventato un collante tra me, Penelope e Nora. Le Raincoats sono strane, freaky e molto punk. Sono la dimostrazione che si può essere punk anche in modo diverso da come la gente spesso s’immagina, ma in un modo primordiale e femminile. Questa volta in studio, per esempio con le tracce di violino, abbiamo cercato di adottare quel tipo di approccio.
Anche i testi hanno risentito di questa rinnovata semplicità. Sono pieni di la la la. Anche in questo caso è stato istinto?
Credo che sia una cosa iniziata in maniera istintiva, ma che poi si è trasformata in una scelta molto, consapevole. Volevamo davvero spogliare le nostre canzoni e provare a scrivere utilizzando una struttura pop tradizionale che portasse l’ascoltatore in un altro mondo. I testi stessi li abbiamo intesi come degli strumenti musicali. E credo che non ci siamo nemmeno rese conto che tutte le nostre canzoni avevano un la la la fino a quando non abbiamo stilato la tracklist. È il tema di tutto il disco. C’è anche da sottolineare come le parole di Penelope e Nora siano più vulnerabili e più dirette rispetto al passato. In questi ultimi tre anni siamo entrate in contatto con la musica in modi più nuovi che, non avendo certe esperienze di vita, non potevamo conoscere da adolescenti.

A tal proposito mi incuriosisce il significato di 2468. È un riferimento alle tabelline?
(ride n.d.r.) Sicuramente è un riferimento alla giocosità infantile che è stata un grande punto di riferimento per le canzoni che abbiamo scritto per questo album. È una sorta di apprezzamento per l'innocenza del suonare la musica quando si è bambini perché è da lì che veniamo. Da pochissimo siamo entrate nel mondo degli adulti e abbiamo un po' più di retrospettiva sulla giovinezza e l'infanzia. 2468 è nata pensando a una giovane ragazza che inventa una canzone mentre cammina per strada. Il contare, gli aspetti estetici più affascinanti come le illustrazioni dei libri per bambini, persino i giochi manuali, sono tutti elementi rudimentali della propria giovinezza che in qualche modo ti legano alle persone che ti circondano e con cui cresci. Per noi è stato così.
Voi avete iniziato da giovanissime. Pensando al discorso di Chappell Roan dei Grammy, riguardo alla salute mentale e fisica degli artisti, come avete vissuto quel periodo e come lo giudicate a qualche anno di distanza?
Quel discorso mi ha davvero toccato il cuore e credo che abbia toccato tutti gli artisti che hanno avuto almeno un’esperienza nell'industria musicale, sia che si tratti di grandi nomi del pop che di indie rocker come noi. Crescendo ci siamo rese conto di come, il firmare quando eravamo così giovani, possa averci fatto dissociare dalle vite che le persone intorno a stanno vivendo. Noi viaggiamo molto e lavoriamo alle nostre carriere. Quando abbiamo pubblicato il nostro primo disco leggevamo ogni commento e ogni intervista che facevamo. Eravamo in soggezione continua. Questa volta, invece, stiamo cercando di rimanere concentrate su ciò che abbiamo creato e su ciò che gli altri percepiscono come importante. Non vogliamo essere influenzate dal meccanismo e soprattutto che quest’ultimo cambi la percezione che abbiamo di noi stesse e della nostra musica. Rimanere con i piedi per terra è fondamentale perché la nostra identità come esseri umani si sta formando proprio ora e non voglio che l'essere sotto gli occhi di tutti distorca questo processo.
Avete sentito la pressione per questo secondo album?
All’inizio sì, anche perché avevamo giusto il tempo del break invernale del college, ma non appena abbiamo scritto le prime cose tutta la paura se n’è andata ed è subentrata la motivazione. Credo che, al di là del fatto che abbiamo o meno un’etichetta, faremmo comunque musica insieme perché è questo che ci piace ed è il modo in cui ci connettiamo l'una con l'altra. A prescindere da tutto, io Nora e Penelope, possiamo metterci in una stanza e scrivere una canzone. Ed è questa la cosa più importante.
