Nei primi anni Duemila, nel bene o nel male, New York è il centro del mondo.
Il vuoto lasciato dalle Torri Gemelle è incolmabile, le ferite rimarginano lentamente e si cercano risposte e rassicurazioni nel passato. Lo fanno, in parte, il cinema e Martin Scorsese con Gangs of New York, film dal sapore epico che indaga e romanticizza la natura multiculturale di Manhattan; lo fa la musica con una nuova ondata di rock. Ci sono un nome e una data cardine: The Strokes e il 2001. Indie rock dal sapore garage, attitudine punk, ritmi sostenuti, riff di chitarra che dipingono storie di giovinezza intessendole di nostalgia e una voce che canta e allunga le note fino a strozzarle. Tutto ha il sapore di un nuovo inizio.
Nello stesso periodo a Manhattan sta prendendo forma un’altra band dal suono atipico, con un cantante dalla voce baritonale che canta sussurrando. Il chitarrista Daniel Kessler e il bassista Carlos Dengler si sono conosciuti durante un corso di filosofia alla New York University, a loro si sono uniti Paul Banks e Sam Fogarino.
I wish I could eat the salt off of your lost faded lips
Basta partire dal primo verso di Obstacle 1 per intravedere la direzione del gruppo e percepirne l’anima inconsueta: suono compatto, strumenti sovrapposti e ritmi di chitarra dettati dallo staccato. Gli Interpol suscitano subito interesse per la diversità che li contraddistingue. Il loro primo singolo PDA è una riflessione infarcita di piccole dosi di autocommiserazione su una relazione che sta finendo e che si trascina grazie solo ai “duecento divani” sui quali dormire da separati in casa. Il ponte strumentale è il preludio, nonché la sintesi perfetta, di quello che sarà di lì a breve Turn On the Bright Lights, perlomeno della prima parte. Uno spazio vuoto che si riempie sempre di più: prima le due chitarre, poi la melodia del basso alla Peter Hook, la batteria e infine la tastiera accennata come la voce corale del finale.

L’album d’esordio degli Interpol esce un anno dopo Is This It, in piena estate. I suoni e le atmosfere però conducono al nord, in un clima che si barcamena tra la decadenza autunnale delle prime cinque tracce e la malinconia dell’inverno che sopraggiunge alla fine. Il disco si apre con Untitled, un pezzo che andrebbe utilizzato come definizione di intro. Quasi totalmente strumentale, vive delle note del basso di Carlos Dengler e del delay della chitarra di Kessler. Il “senza titolo” deriva proprio dal fatto che fin da subito il brano era nato come introduzione per i live.
Questo non è l’unico caso in cui il nome della canzone racconta qualcosa di più riguardo alla genesi del pezzo stesso. I due “ostacoli”, ad esempio, sono tali per la difficoltà incontrata da Banks e soci nella scrittura. Obstacle 1 secondo singolo estratto, rappresenta il marchio di fabbrica della band: la drammaticità delle parole cantate si specchia nel muro sonoro delle chitarre, dal quale filtra solo qualche spiraglio di luce quando Kessler si cimenta in un arpeggio nel finale. Tema centrale è il rimpianto per un amore spazzato via dal suicidio.

«We just hadn’t written anything good in a couple of months, and all of sudden we were pumping out songs» racconterà a Pitchfork Paul Banks qualche tempo dopo. Obstacle 2 è un’altra di quelle canzoni dal parto complicato, giunte quasi a sorpresa. La Route 7 è metaforicamente la lunga strada che viene percorsa dal protagonista che cerca una via di fuga dall’alcolismo. L’amore per una ragazza è forse la soluzione, l’unica in grado di cambiarlo e aggiustare le sue incertezze.
L’insicurezza, insieme con la fragilità e la voglia di cambiamento, sono gli elementi che traboccano dalla sfera personale e contribuiscono al ritratto intimo di una città ferita al pari dei suoi cittadini. New York è una metropoli a strati e dagli innumerevoli volti, come le maschere emotive che si è costretti a indossare. C’è la metropolitana, perfetta per essere il set di un porno, la cui sporcizia è mitigata dall’ordine e dalla geometria dei binari, e ci sono le luci luminose dei grattacieli in superficie. Il tono cantilenante e malinconico di NYC porta con sé l’eredità dell’indole post-punk degli Echo & the Bunnymen, rielaborata in un suono reso quasi orchestrale dalla distorsione delle chitarre e dalle secondi voci.

La distanza che fin da subito gli Interpol hanno posto tra essi e le altre band indie rock americane del periodo è anche riscontrabile nelle tracce più heavy come Say Hello to the Angels. Un suono elettrico, il palm mute della chitarra e un ritmo incalzante di batteria sono solo un’introduzione illusoria. Non c’è tempo per prendere spazio nel turbine di parole, nemmeno in uno dei ritornelli più melodici e aperti. La ripetizione degli accordi, resa più evidente dal basso che accenna un fraseggio punk-funk nel bridge, è sinonimo dell’ossessione amorosa. Distruttiva e disturbante come in Hands Away, brano lento, etereo e nebbioso. I versi essenziali cantati da Banks sono di difficile interpretazione, una relazione omosessuale, forse, sfociata nel bondage e nel sesso fine a se stesso.
La seconda parte del disco è quella che a suo tempo fece azzardare il parallelismo più comune in ambito post-punk e indie rock, quello con i Joy Division. Stella was a diver and she was always down, a venti anni di distanza, rende ancora giustificabile il paragone. La voce baritonale, lo storytelling struggente ed erotico della routine della protagonista tra droga e sesso e il tono cupo degli strumenti sono i caratteri che più ricordano la band di Ian Curtis. Tuttavia, l’aspetto più interessante è la rielaborazione effettuata dalla band newyorkese nella seconda sezione della canzone, quando subentra la tastiera e il ritmo rallenta: c’è il capovolgimento della prospettiva, il narratore è esso stesso personaggio.

Turn On the Bright Lights è un album carnale, non solo per i numerosi riferimenti al sesso. Il colore rosso dell’artwork ricorda il sangue, come il suono della chitarra appena pizzicata all’inizio di Roland. Al secondo ascolto, quando già si è a conoscenza della trama della canzone, ecco che sembra di ascoltare il gocciolio del sangue che tinge il pavimento del retro di una macelleria. Il macellaio protagonista del brano più distorto del disco – lo è anche la voce di Banks - non è dato sapere se uccida persone o animali, di sicuro c’è che ama i coltelli come William Poole, il "Bill the Butcher", leader della Confederazione dei Nativi Americani, che nella seconda metà dell’Ottocento lottava per il predominio nei Five Points.
L’atmosfera si fa sempre più fredda, l’immaginario è quello nordico come si può evincere dal titolo della traccia conclusiva. Leif Erikson è un navigatore vichingo, il primo europeo ad aver messo piede in Nord America. The New è il pezzo imprescindibile, pensare che Daniel Kessler non ne era del tutto convinto per la lunghezza e la varietà di ritmi. Il penultimo brano inizia con degli effetti sonori metallici che ancora una volta rimandano al mondo post boom industriale di fine anni Settanta, - non è la New York della No Wave di James Chance e dei Contortions, gli Interpol si trovano più a loro agio nella Greater Manchester dei The Chameleons -, il basso detta la linea melodica, la chitarra riempie il vuoto con un suono compatto e appena arpeggiato che fa da sottofondo al canto sofferto di Paul Banks. Dalla metà in poi subentra il piano e la tensione sale secondo dopo secondo: una nota distorta ripetuta all’infinito rende il senso disturbante della difficoltà di rinascere “nuovi”. Carlos Dengler è instancabile e tesse una delle linee di basso più profonde di sempre.

Il finale dell’album parla in entrambi i brani di rinascita, come l’erba che cresce nell’ultima scena di Gangs of New York. L’amore può “farci a pezzi” o può essere l’occasione per imparare un nuovo linguaggio, per mettersi alla prova, ricominciare e cambiare se stessi. La donna protagonista di Leif Erikson ama fare sesso al buio e chiede di spegnere le luci. Una conclusione studiata per un album con un titolo emblematico.
Sono passati venti anni e le luci su quel palco rosso sono più luminose che mai. Croce e delizia di una band, fresca di settimo album, che da quel 20 agosto 2002 ha dovuto sempre reggere il confronto con un debutto così spontaneo e geniale, nel riproporre in una veste originale – e non in uno sterile revival - un passato musicale che l’America sembrava aver dimenticato, da diventare ingombrante. Eppure Turn On the Bright Lights non potrà che rimanere per sempre un rifugio sicuro e una promessa di rinascita, oltre che un metro di paragone per qualsiasi band si cimenti nel genere.
