Non ci facciamo più caso ormai. Chiamiamo il nastro adesivo Scotch, la carta assorbente Scottex, le bambole Barbie. È uno dei processi linguistici causati dal capitalismo: la volgarizzazione del marchio, ovvero quando il nome commerciale di un prodotto è talmente comune da diventare sinonimo della merce stessa. Nella musica esistono pochissimi dischi capaci di innescare un meccanismo simile. Per esempio, quando un artista pubblica un album spiazzante, folle, di rottura nei confronti del passato e probabilmente incompreso (almeno all’inizio), come lo definite? «Questo è il suo Kid A».
Più o meno chiunque scriva o mastichi un po’ di musica avrà almeno una volta utilizzato quest’espressione. Già da questo si comprende come il quarto album dei Radiohead 25 anni fa abbia cambiato le regole del gioco. Sebbene il riferimento a un concetto prettamente economico farebbe inorridire i membri della band, perlomeno quelli di allora, in particolare quel Thom Yorke in fissa con No Logo di Naomi Klein, è il più calzante per descrivere in poche parole uno dei dischi più paradossali di sempre.

Persino Nigel Godrich, durante le fasi di registrazione e produzione, non si capacitava del percorso privo di senso che il gruppo stava intraprendendo. Si è fidato perché aveva fiducia nei cinque ragazzi che avevano appena conquistato il mondo con Ok Computer, ma anche perché non poteva farne a meno. Quell’album del 1997, e in particolare il tour che ne seguì, rischiò di far naufragare la carriera della band. Il burnout, il blocco dello scrittore, la depressione di Thom Yorke e l’incapacità di gestire impegni e successo mandarono in seria crisi il sistema Radiohead. (Tutto documentato in Meeting People is Easy di Grant Gee). Tuttavia, come ricordano i diretti interessati, ogni opera del gruppo è nata da profonda crisi e da conflitti. Persino dopo Pablo Honey andarono vicini allo scioglimento.
Kid A è nato da queste ceneri, alla fine di un decennio pieno di morti, da quella del grunge a quella del britpop. A tal proposito, si è soliti dire e leggere di Ok Computer come dell’album «che ha ucciso il britpop». Lo dissero alcuni critici di allora, lo si continua a ripetere spesso anche oggi, ricollegandosi al percorso mediatico e mentale del 1997, l’anno del comeback degli Oasis e della frenesia per Be Here Now. La verità è che Liam e Noel forse l’hanno affossato da soli il britpop, allo stesso modo di come avrebbero potuto raschiare quanto di buono era rimasto sul fondo del barile chitarristico di The Bends e Ok Computer i Radiohead.
«La cosa interessante delle band e della musica è il modo in cui si evolvono. Credo che tra un paio di album Kid A sarà considerato più importante di quanto lo sia ora. È un altro modo di lavorare, un'altra metodologia. È questo che lo rende interessante, ed è ciò che rendeva interessanti Bowie negli anni '70, Lou Reed o chiunque altro. A volte bisogna semplicemente fidarsi del proprio istinto». Mette quasi i brividi rileggere queste dichiarazioni di Ed O’Brien. Nell’intervista rilasciata insieme a Jonny Greenwood a New Musical Express nel dicembre successivo all’uscita del disco sembra avere tutto chiarissimo in testa. Eppure, all’inizio dei lavori sull’album a Parigi, i più scettici erano proprio i due chitarristi perché Yorke era “impazzito” e aveva deciso che non tutti erano necessari in tutte le tracce e, soprattutto, che le chitarre avrebbero avuto molto meno spazio.

Fu un processo lungo tra la capitale francese, Copenaghen, Gloucestershire, Oxford e gli Abbey Road Studios di Londra. Sintetizzatori suonati con un approccio alla Tom Waits, Onde Martinot, le suggestioni disneyane, gli archi e Scott Walker come nume: sulla genesi di Kid A si è detto e scritto di tutto. Potremmo stare qui a disquisire sulla preponderanza del ritmo sulla melodia. Sui testi che sono inscindibili dal suono (e per questo nemmeno inseriti nel libretto). E sull’importanza di un metodo completamente differente rispetto al passato, fatto di un’assenza di scadenze e di tentativi. Ma è già stato tutto sviscerato e raccontato. Conviene invece chiedersi, cosa significa per noi e per il mondo della musica quell’album uscito nel 2 ottobre del 2000?
La prima cosa viene da dire è che un disco come Kid A una major di oggi non l’avrebbe mai fatto uscire. Oppure, girando la questione al contrario, probabilmente non ci sarebbe stata una band tanto coraggiosa e convincente da farsi accordare tale rischio. Ogni scelta in quel contesto sembrava folle. Dall’applicazione Java iBlips in sostituzione dei videoclip (degli antesignani dei mini-video TikTok o dei reels?), un vero e proprio asset considerando l’importanza di un canale come Mtv, ai concerti promozionali caricati interamente online prima dell’uscita, fino alle copie pirata e alle 150mila ritirate il giorno della pubblicazione. Senza contare la gestione del rapporto con i critici, costretti ad ascoltare il disco senza copie promozionali, ma sotto stretto controllo.
E ad aggravare il tutto c’era il fatto non secondario che Kid A non era il disco che il mondo si aspettava dai Radiohead. Non poteva aspettarselo perché il rock era appannaggio delle chitarre e dopo Ok Computer – a suo modo rivoluzionario, ma comunque legato alla tradizione alternative britannica – che aveva già creato proseliti (su tutti Coldplay e Muse), non sembrava esserci bisogno di un altro stravolgimento.

Nonostante le prime recensioni molto tiepide, i Radiohead raggiunsero la prima posizione nelle due coste dell’Atlantico. Negli Stati Uniti non accadeva da tre anni che un artista britannico ottenesse la vetta. «Siamo stati i Beatles per una settimana» dirà dieci anni dopo Thom Yorke intervistato da Steve Lamacq. Quell’entusiasmo nato dall’hype però non si esaurì con la perdita della prima posizione in classifica. Kid A negli anni è rimasto un culto, un disco da ascoltare e riascoltare, per scoprire ogni volta qualcosa di nuovo. Compresi gli interni, come le statistiche sul riscaldamento globale e immagini critiche di Tony Blair, allora Primo Ministro inglese, tornato in auge pochi giorni fa nella questione palestinese. Ma non sono tanto queste coincidenze e corrispondenze a costituire un’eredità pesante. Neppure il gemello Amnesiac (2001) che alzò il livello e fece capire che no, non era stato un progetto e un caso isolato.
Oggi è un po’ più complicato di allora. Il capitalismo tanto temuto e combattuto dai Radiohead – di cui sono rimasti vittime inevitabili loro stessi alla fine, basti pensare al promoter del loro prossimo tour – è ancora più invadente nei meccanismi della discografia che vive per accontentare il pubblico. E forse è proprio questo il problema dell’appiattimento di molti generi, in particolare quelli legati al mainstream. L’essere fin troppo schiavi delle aspettative degli ascoltatori. Ci si dimentica invece che il più delle volte, nell’arte in particolare, resta chi spariglia le carte. I Radiohead con un Kid A in meno, un OK Computer 2 e tante copie vendute in più, non sarebbero quello che sono poi diventati. Diciamocelo, ogni artista a un certo punto della propria carriera avrebbe bisogno di un Kid A.