17 settembre 2017

I live my life for the stars that shine: Supersonic è un faro di speranza per le band emergenti

Oasis at Knebworth TAKEN FROM INTERNET http://www.intheflesh.it/musica/alive-and-kicking-un-live-segna-la-storia-part-1/3/
Knebworth, 1996

Chi dice Gallagher, dice dramma. E’ oramai parte dell’immaginario collettivo, la tendenza ad associare i due fratelli ai più disparati disastri, dalle camere d’albergo sfasciate, alle risse, ai commenti irriverenti su altri artisti o l’uno verso l’altro. Sono quel tipo di artista dietro al quale non si riesce ad immaginare un passato, di quelli che sembrano essere nati come sono, con la faccia da schiaffi, una chitarra in mano o un parka Pretty Green.
Ho passato gli ultimi anni della mia vita a contatto con una serie infinita di band ed artisti emergenti. Ho notato uno schema ricorrente che tendo a ricollegare a ciò che ho spiegato sopra, ovvero un velato atteggiamento rassegnato e disfattista nei confronti della fama e degli artisti da cui prendono ispirazione. Nessuno sa quale sia il prossimo passo da fare, tutti hanno una specie di tara mentale inconscia secondo la quale esiste una barriera invalicabile che li separa di chi già ce l’ha fatta, l’idea che nonostante i sacrifici, la gavetta e le porte sbattute in faccia non riusciranno mai ad avere ciò che serve per passare dall’altra parte.
Ripensavo a tutto ciò mentre entravo nella sala cinematografica dove si sarebbe svolto lo screening di Supersonic seguito da una conferenza di Alan McGee, fondatore della storica etichetta musicale Creation Records nonché mentore iniziale degli Oasis. In parte, perché di fianco a me sedeva un amico e cantante in una band emergente indie rock il quale aveva appena finito di raccontarmi della sua frustrazione, e di quanto tutto nella sua band andasse a rotoli. Ah, i musicisti. Anime tormentate.
Non dico ciò, ahimé, per convenzione. Il documentario racconta la storia personale ed artistica degli Oasis nel biennio precedente allo storico concerto di Knebworth, il quale vide un’affluenza di ben 250.000 persone totali. Non punta il riflettore sulle vicende ormai celebri che circondano i Gallagher ma presenta una prospettiva del tutto nuova, un insight nelle vite di tutti i giorni dei due fratelli, nel loro rapporto con gli altri membri della band. Narra della loro scalata al successo, inaspettata e vertiginosa, così veloce da non lasciare loro nemmeno il tempo di realizzare che stesse accadendo veramente. Racconta le paure, la rabbia, l’euforia di quattro poco più che vent’enni provenienti dalle case popolari della Manchester degli anni ‘90, da situazioni famigliari ed economiche a dir poco disastrose.
Vediamo in apertura un giovanissimo Noel Gallagher, appena assunto come tecnico della batteria per il tour degli Inspiral Carpets. Un Liam Gallagher, turbolento e strafottente che dal nulla decide di formare una band in assenza del fratello, i Rain, nonostante quello con l’inclinazione naturale per la musica fosse sempre stato Noel. Un introverso ed un estroverso a confronto e scontro.
Li vediamo insieme, schiacciati in un minuscolo van insieme a Bonehead, Paul McGuigan e Tony McCarroll, alla droga ed ai loro strumenti sulla strada per il King Tut’s Wah Wah Hut di Glasgow, increduli di poter suonare una data al di fuori delle serate open mic nei locali di Manchester. Vediamo il destino fare il suo corso quando un giovanissimo Alan McGee fa la sua comparsa totalmente inaspettata nel locale al solo scopo di dare fastidio ad un’ex fidanzata presente quella sera, la stessa persona che aveva portato gli Oasis su quello palco. Sulle note di Live Forever e sulla strada del ritorno, i quattro non esultano, non festeggiano in grande per aver ottenuto un contratto discografico con la Creation Records. Parlano del destino, delle coincidenze dettate dal fato. “tutti parlano del destino senza sapere che cosa sia...ma è proprio questo, è successo a noi. Y’know what I mean?”

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Vediamo i tour, le apparizioni televisive e radiofoniche, le interviste, le droghe. Una finestra aperta sulla vita di una band che ha avuto tutto e subito, sopraffatta dal suo stesso successo e per alcuni versi incapace di gestirlo. Vediamo raccontata la situazione famigliare dei Gallagher, dalla stessa madre Peggy. Racconta del padre violento, dell’infanzia di Noel e Liam, della sua decisione coraggiosa di abbandonare un matrimonio violento. Della ricomparsa del padre nel momento dell’apice del successo dei figli, di come Liam abbia minacciato di spezzargli le gambe e di come lui si sia rivolto ai tabloid per rigirare vigliaccamente la situazione a suo favore e cercare di distruggere tutto ciò che i figli erano riusciti a creare anche nell’assenza di una figura paterna a sostenerli.
Il documentario culmina con le scene filmate durante Knebworth, con gli Oasis che scendono da un elicottero e si ritrovano catapultati su un palco davanti ad un mare di persone, di volti trepidanti d’attesa. “This is history, right here right now. This is history” esordisce Noel, con una frase che passerà alla storia.
Le luci si riaccendono, ritorniamo nella sala ed Alan McGee fa il suo ingresso. È un uomo sulla cinquantina abbondante , vestito in total black, con un forte ed inconfondibile accento scozzese. Parla di Liam e Noel quasi divertito a tratti, racconta aneddoti e storie su di loro. D’altro canto, lui li ha conosciuti quando erano ancora due ragazzi qualunque.  “everyone tends to think of Liam as the funny one but they’re wrong. Noel, oh Noel...he’s a fucking comedian!” spiega divertito in riferimento alle scene più esilaranti del documentario, prima di iniziare a rispondere alle domande che gli vengono rivolte dal pubblico.

Racconta di come sia ancora in contatto con Peggy Gallagher, e di come il successo dei figli non abbia minimamente influenzato il suo stile di vita. “She still lives in the same house...the only difference is that she’s got a new fence” narra divertito McGee. “she could be fucking Queen Peggy but all she’s excited about is her new gate!”

La domanda inevitabile non tarda ad arrivare. Proviene da un ragazzo ventenne, dall’aspetto e dall’atteggiamento tipici di un musicista indie rock. “could Oasis ever happen again?” chiede, una nota di trepidazione nella sua voce. Sa già la risposta che otterrà, sa perché ha rivolto proprio quella domanda, lo sappiamo tutti.
McGee esita per un secondo. La sua risposta è no. La delusione sul viso del ragazzo diventa evidente. Tuttavia, “No band will happen again the same way it did” procede il produttore, spiegando come l’attenzione dei media sia stata un fattore determinante nell’ascesa degli Oasis, in quanto ha permesso alla band di raggiungere un pubblico molto vasto, ragazzi e ragazze che si riconoscevano nelle loro parole di ribellione e libertà. “but I’ll tell you something. Right now, each one of us, we are the media”.
Ogni giorno, in ogni momento, ognuno di noi ha accesso ad una quantità infinita di contenuti. Allo stesso modo, chiunque può pubblicare un video o una canzone online. Tutte le nostre voci contano in egual misura, e se sfruttato nel modo giusto internet può diventare il fattore determinante nel successo di un artista. Qualcosa come gli Oasis, o come qualsiasi altra band, non potrà mai più esistere, è vero. Ma ne potranno succedere molte altre, magari anche migliori, soltanto che lo dovranno fare con mezzi diversi. Dovranno diventare sempre più adattabili e dinamiche, creare le occasioni per permettere al destino di fare il suo corso e questo richiede uno sforzo non indifferente.
In conclusione, se siete in una band emergente, o se conoscete qualcuno che ne fa parte, vedetevi o mostrategli questo documentario. È divertente, ironico, incensurato. E maledettamente incoraggiante.

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