31 luglio 2017

You say yes, I say no. You say goodbye, I say hello: gli artisti e Spotify

Cosa accomuna voi a Taylor Swift? Probabilmente solo il fatto di aver dedicato "weeee are never ever EVER getting back together ad un ex (e se avete altro in comune, beati voi). Cosa invece distingue Miss Swift non solo da voi, ma dalla maggior parte degli artisti di oggi? Il fatto di averla dedicata anche a Spotify.

Se non vivete "under a rockcome direbbero gli anglofoni, la notizia riguardante la rottura tra la reginetta del pop e la piattaforma di streaming musicale non vi sarà nuova: un bel mattino del novembre scorso infatti, i milioni utenti di Spotify che si sono svegliati desiderosi di ascoltare 1989, uscito pochi giorni prima, hanno avuto un’amara sorpresa: non solo il nuovo album non era stato reso disponibile, ma erano spariti anche i quattro precedenti. Dopo lo shock iniziale e i dubbi riguardanti una possibile invasione aliena e una vicina fine del mondo, il panico ha lasciato spazio alla razionalità e ci si è chiesti: perché mai un artista da 7 Grammy sulla mensola della libreria in salotto avrebbe deciso di fare una cosa simile? La questione è complessa e le risposte sono molteplici. Ma andiamo con ordine.

Taylor Swift Performs On ABC's "Good Morning America"
"Hasta la vista Spotify, il mondo lo posso comprare anche senza di te” -Miss Swift in una delle sue recenti dichiarazioni

 Innanzitutto è necessario sottolineare che Taylor Swift non è l’unica ad aver fatto una scelta simile: benché la maggior parte degli artisti di oggi (e di ieri) abbia reso il proprio catalogo disponibile, qualcuno, come i Beatles, gli AC/DC e i Led Zeppelin, ha deciso di rimanerne fuori. Poi c’è un’altra categoria, quella delle “new entry”, di cui fanno parte i Pink Floyd e gli Eagles, composta da coloro che hanno reso disponibile la propria musica solo pochi mesi fa e il cui “ritardo” è probabilmente dovuto a trattative di stampo economico. Infine c'è una minoranza composta da coloro che hanno avuto dei ripensamenti, dicendo prima sì allo streaming musicale per poi cambiare idea. Tra questi, il leader dei Radiohead Thom Yorke e, per l’appunto, Taylor Swift.

È stata proprio la decisione di quest’ultima e il conseguente shock del 98% degli utenti di Spotify (okay forse non proprio il 98%, ma quasi: basta sapere che Miss Swift aveva 40 milioni di follower ed era presente in più di 19 milioni di playlist) a riportare a galla la questione della politica della piattaforma di streaming musicale.

Thom Yorke, ad esempio, appena prima di rimuovere il suo album da solista The Eraser e l’album di debutto AMOK del side project Atoms For Peace, ha dichiarato con un tweet: “Quando scoprite nuovi artisti su Spotify non pensiate che siano loro a guadagnare qualcosa, i soldi vanno soprattutto a grosse etichette e ad azionisti”. Per quanto si possa essere d’accordo o meno, il meccanismo di Spotify per quanto riguarda i guadagni è effettivamente abbastanza complesso e a tratti oscuro.

Cercando di semplificare la questione in termini di A B C: ogni volta che premete play ad un brano, Spotify paga tra gli 0,006 e 0,0084 centesimi a chi ne detiene i diritti. Questi soldi entrano nelle tasche delle etichette discografiche che ne trattengono una parte per poi darne una agli artisti. Anche se non siete delle cime in matematica, potete ben vedere come anche con milioni di ascolti i ricavi che effettivamente arrivano nelle tasche di questi ultimi rimangono spesso irrisori rispetto alla quantità di volte in cui un brano è stato ascoltato. Inoltre il ricavo effettivo di un artista dipende anche dalla politica di distribuzione dei guadagni relativi alle royalties che le etichette applicano, major o indie che siano. Sono proprio le case discografiche a trarre i maggiori vantaggi da Spotify: più musicisti hanno il loro catalogo disponibile per lo streaming, più la casa discografica guadagna. Simple as that.

Simpatica captatio benevolentiae ideata da una mente brillante nel team di Spotify perché tanto, alla fine, “tentar non nuoce”

 

Coloro che creano la musica, e che dunque dovrebbero ricavare il giusto compenso da qualcosa che sono stati loro a creare, sembrano essere gli ultimi della fila. E Taylor Swift sembra essere una delle poche personalità nel mondo della musica oggi decisa a difendere ad alta voce i diritti degli artisti: “Non sono disposta a contribuire con il lavoro di una vita ad un esperimento che non penso ripaghi nel modo giusto scrittori, produttori, artisti e creatori di musica e non sono d’accordo con il portare avanti l’idea che la musica non abbia valore e debba essere gratuita”. Un aspetto interessante che viene raramente sottolineato è proprio quello artistico: creare una canzone, un album, è un processo lungo e faticoso, che coinvolge personalità a vari livelli e che diventa, per chi la crea, un coinvolgimento non solo a livello economico ma anche personale. Björk si è recentemente unita al coro, dichiarando proprio qualche giorno fa di non voler rendere disponibile su Spotify il suo ultimo album, Vulnicura, proprio per lo stesso motivo: "Lavorare ad un disco per due o tre anni per poi dire 'ecco qui, è gratis' mi sembra da pazzi. Non è solo una questione di soldi, ma di rispetto. Rispetto per la cura e la quantità di lavoro impiegate".

Comprare la musica sembra dunque essere da questo punto di vista il modo giusto di consumarla: acquistare un album significa credere, investire in quell’artista, mostrare rispetto per il lavoro che è stato fatto. Taylor ha proseguito questo discorso dicendo: “Penso davvero che noi nell’industria musicale possiamo lavorare insieme per unire la tecnologia all’integrità. E penso che possiamo ancora insegnare alle nuove generazioni ad investire nella musica e non a consumarla in maniera effimera”. La politica di Spotify sembra invece andare proprio in questa direzione: ascoltare musica in streaming risulta essere una pratica frammentaria. La facilità con cui si ha accesso alla musica in streaming può essere vista come un’arma a doppio taglio, che porta il più delle volte ad un ascolto distratto, casuale. Spesso e volentieri queste modalità di fruizione  finiscono per distruggere e svalorizzare non solo le canzoni in sé ma anche quell’insieme che è l’album e il lavoro che ci sta dietro. Basti pensare al modo in cui la maggior parte degli utenti utilizza Spotify, per esempio ascoltando i brani più popolari, ovvero un mix di canzoni poste in maniera disordinata e appartenenti ad album differenti. Certo, a volte questo è il modo migliore per approcciarsi a un cantante che non si conosce e scoprire se è affine ai nostri gusti, ma dall’altro lato distrugge quel “racconto” che è l’album e svalorizza aspetti quali, ad esempio, l’ordine delle canzoni, che non è mai frutto di una scelta casuale. L’album nella sua interezza è uno dei volumi che compone la biografia di un artista e il suo valore (come di qualsiasi altra opera) sta soprattutto nelle scelte fatte, nei dettagli: cosa raccontare, come, in che ordine. Che senso avrebbe leggere solo alcuni capitoli di un libro? Oppure saltare dal capitolo 2 al capitolo 5 per poi passare al 3 di un altro libro?

 

Immaginepeace
I Peace in una mal riuscita quartina (metricamente parlando) cercano di convincervi a comprare il loro ultimo album

Oltre all’aspetto artistico c’è ovviamente quello economico: i profitti che gli artisti ricavano con la vendita di dischi e biglietti sono infatti nettamente superiori a quelli dello streaming via internet, che risultano molte volte irrisori se paragonati alle altre fonti di guadagno, anche se il prodotto - la musica - è lo stesso. In altre parole, il compenso che chi scrive e compone musica dovrebbe ottenere grazie al proprio lavoro, che è pur sempre una forma d’arte, dovrebbe essere più alto. Riguardo a questo ultimo punto Spotify si difende dicendo che fino ad ora oltre due miliardi di dollari (cioè il 70% dei ricavi) sono stati pagati all’industria musicale e che i guadagni continueranno a crescere con l’aumento degli abbonati. Ci credete? Taylor, il suo management e molti altri musicisti no.

Rendere però il servizio solo disponibile a pagamento, come qualche personalità nel mondo della musica vorrebbe, sarebbe una mossa sbagliata, che andrebbe a penalizzare gli artisti in primis: ci sarebbe infatti un’ampia fetta di ascoltatori che non sarebbe disposta a pagare e tornerebbe a ricorrere al caro vecchio metodo della pirateria, scaricando canzoni o ascoltandole su canali quali Soundcloud e Youtube, completamente gratuiti. Rendere Spotify un servizio solo a pagamento penalizzerebbe in particolar modo gli artisti meno conosciuti, che hanno trovato nella piattaforma di streaming musicale un ottimo mezzo per farsi conoscere e guadagnare fan. Spotify, con le playlist e la sezione “artisti simili” è diventata un’ottima vetrina e oggi, nell’era di internet, è addirittura più potente della radio. Rimuovere volontariamente il proprio catalogo sarebbe per i giovani talenti un po’ una forma di suicidio: metaforicamente parlando, l’effetto sarebbe paragonabile a quello che l’iceberg ha avuto sul Titanic. Insomma, decidere di rimanere fuori da Spotify rimane una mossa che solo un’élite ristretta potrebbe permettersi. Qualcuno, come ad esempio Beyoncé e The Black Keys ha preso una posizione intermedia, decidendo di rendere gli album nuovi disponibili solamente qualche settimana dopo la loro uscita, in modo da cercare comunque di incrementare le vendite.

Miss Swift raduna i 2/3 del PIL degli USA a casa sua con la scusa del compleanno, offre loro da bere e li recluta nella squadra. Beyoncé è la prima a cedere (all’alcool e alla proposta d Taylor), Jay Z è indeciso ma segue la moglie perché dopotutto who run the world? GIRLS. Justin è poco convinto ma alla fine si fida dei suoi amici perché anche loro hanno vinto più di un Grammy quindi ok

Scelte di marketing e riunioni segrete a parte, Taylor Swift continua a vestire i panni della piccola rivoluzionaria (cara Taylor, a ‘sto punto tanto vale che l’album lo ribattezziamo 1789, non ti pare?). Alla consegna del premio numero 342398 (nella realtà, 245), ovvero il prestigioso Billboard Woman Of The Year, ha dichiarato: “eventi come questo, che radunano le personalità più influenti del mondo della musica, mi fanno sperare che il giusto dibattito venga avviato e invito tutti voi a prenderne parte”.

Se dopo aver letto questo articolo siete confusi e non sapete da che parte stare, sappiate che chi lo ha scritto si trova nella vostra stessa situazione. La questione è complessa e non esiste una soluzione semplice. Taylor Swift sarà un caso isolato? Oppure cambierà idea e inizierà a cantare “we may eventually get back together”? Cosa succederà se altri grandi nomi della musica decideranno di seguire le sue orme? Sarà la fine di Spotify o l’inizio di una relazione migliore e più equa tra artisti e streaming musicale? Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui l’industria musicale è in una fase di continuo, costante e imprevedibile cambiamento, e dunque lo scopriremo presto.