05 maggio 2023

Autoanalisi e liberazione, un viaggio intorno a Westerman: l'intervista

An Inbuilt Fault è un disco geografico. Non solo perché è stato scritto, registrato e prodotto in maniera sparpagliata, tra Europa e Stati Uniti. Il suo carattere nomade si percepisce dagli arrangiamenti eleganti di ogni traccia, dai falsetti alla Justin Vernon e dalla volontà di William Westerman di fuggire dalla paralisi emotiva e fisica. Tutto è cominciato in un paesino in mezzo alle montagne in provincia di Lucca, nel pieno del secondo lockdown. Una chitarra e una loop station per fissare lo scheletro delle canzoni, ma anche tanta inventiva per calibrare le linee di trombone e gli archi. Poi Londra, Los Angeles e infine Atene, sua nuova casa e momentaneo porto d’approdo. Sì, perché tra qualche mese iniziano i concerti. William, infatti, è collegato via Zoom dalla sua casa di Londra, dove è dovuto tornare in attesa di partire per le prime tappe del tour: si racconta e ci aiuta a decifrare i suoi viaggi. Quelli del corpo, della mente, ma soprattutto della musica.

Photo Credit: Siam Coy

Il tuo album di debutto (Your Hero Is Not Dead, 2020) è stato scritto prima del Covid-19, ma è stato pubblicato durante la pandemia. An Inbuilt Fault invece ha iniziato a prendere vita durante il lockdown, in Italia. Com'è stato il tuo approccio alla scrittura?

Non scrivevo nulla da parecchio. Per un lungo periodo non ho proprio avvertito il desiderio di farlo, né quel sentimento necessario alla creazione. Poi invece, all’improvviso, è stato come se avessi qualcosa dentro che volevo tirar fuori. Era l’inverno del 2021 quando l’album ha iniziato a prendere forma, era appena cominciata la seconda ondata del virus e con essa il lockdown e il coprifuoco. Quella dell’Italia non è stata una scelta: ero andato a trovare mio padre che vive in Toscana, in teoria sarei dovuto restare lì una settimana e invece sono rimasto bloccato lì sei mesi. La maggior parte delle canzoni le ho scritte in quel periodo, tra novembre e marzo. Un isolamento che ha influenzato tutte le tracce: ognuna di esse è come se affrontasse il tema da una prospettiva diversa.

Cosa ti ricordi di quei sei mesi in Italia, c’è qualcosa in particolare?

Non c'era davvero una quantità enorme di cose che accadevano, ad essere sinceri. Tuttavia, credo che proprio questo aspetto sia stato lo stimolo principale. Il senso di stasi è paradossalmente l’anima del disco, soprattutto anche per una netta mancanza di attività a livello personale. Come ricorderai anche tu, non potendo uscire di casa, c’era poco da fare. E quindi penso che sia stata più la mancanza di eventi, la sensazione di essere un po' congelati e di non avere alcun controllo, a provocare e influenzare la mia scrittura. Più di qualsiasi altra cosa possa essere accaduta in quei mesi.

Quando ho ascoltato il disco, ho pensato subito che Take fosse la canzone più rappresentativa, soprattutto in merito a questa cosa che hai appena detto.

In un certo senso lo sono un po’ tutte le tracce, anche nella loro diversità. Sono tutte istantanee. Il motivo per cui questo disco è così com'è, è perché c'è una sorta di linea di demarcazione tra queste canzoni e ciò che descrivono. Ma sì, è una buona cosa che Take sia un po' più immediata. (ride ndr)

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In An Inbuilt Fault canti di paure e incertezze. Quindi, questo album è più simile a una liberazione o a un'autoanalisi?

Questa è una domanda difficile. Forse entrambi. Quando penso a un disco me lo immagino come un veicolo: scrivere musica è una fuga per chi la scrive, escapismo. Ma è anche un modo per cercare di districare, almeno per quanto mi riguarda, quei nodi che inevitabilmente si formano nei vari momenti della tua vita, in base a ciò che ti sta accadendo intorno e al luogo in cui ti trovi. Quindi, direi che probabilmente è entrambe le cose.  È catartico ma è anche coinvolgente per via dei temi e delle problematiche di cui tratta.

Dopo l’Italia e la Toscana, un altro luogo importante per la genesi del disco è stato Londra dove hai conosciuto James Krivchenia. Com'è stato lavorare con lui e in che modo ha influenzato il risultato finale?

È stato incredibile lavorare con James. L’ho incontrato la prima volta, se non ricordo male, nel febbraio del 2020, poco prima del primo lockdown. Ha avuto una grande influenza sul disco, decisamente. Sebbene avessi già registrato gran parte delle demo prima ancora di parlare con James, per quanto riguarda gli arrangiamenti fin dall’inizio avevo voglia di creare un mood specifico che potesse riprodurre l’esperienza del live, soprattutto a livello di percussioni.  In quel periodo ascoltavo molto i CAN e molta altra musica strumentale krautrock e volevo incorporare quella libertà e quel tipo di elementi per fare da contraltare al contenuto dei testi. Io e James ci siamo trovati bene fin da subito, non parlavamo molto all’inizio, ma ci scambiavamo e-mail e demo di continuo.

E poi Los Angeles per le registrazioni, un'altra tappa del disco.

Quando sono andato a Los Angeles con David il nostro rapporto è diventato diretto: abbiamo lavorato duramente per un mese alle registrazioni. Non saprei definire il suo modo di fare, so solo che è molto diverso dal mio ed era proprio questa la cosa che cercavo. Volevo un cambiamento, sia a livello musicale che nel processo creativo e produttivo. An Inbuilt Fault è a tutti gli effetti un album live, noi l’abbiamo pensato come se fosee suonato da una band. Suonato e registrato in presa diretta, una cosa che non avevo mai fatto prima di allora. Come già detto, desideravo fare un salto nell’ignoto e farlo con David è stato ancora più bello. Siamo diventati molto amici, l’ho sentito ieri per telefono.

A proposito di influenze, a livello di percussioni,  qualcosa di strano accade nella traccia di apertura Give: sembra di sentire qualcosa che si rompe, tipo del vetro.

È stata un'idea di James ovviamente. Abbiamo usato il mio programma per mettere su come una sorta di loop poliritmico. Un loop poliritmico di 67 battute se non erro. E poi lo abbiamo usato come base. In termini di suoni effettivi, sono dei campioni che abbiamo registrato noi di un solo colpo. James è stato bravo a combinarli in modo tale che si percepisse l’effetto di un vetro che si rompe.

Un altro aspetto nuovo è l'uso degli ottoni, molto più evidente rispetto al tuo primo album. Da dove deriva questa scelta?

Mi piacciono i corni, non lo so davvero il motivo. Il trombonista che suona il disco, Robin Eubanks, è un musicista fantastico. Non ero a conoscenza del suo lavoro prima di conoscerlo, ma avendo scritto un sacco di parti da far suonare agli ottoni, volevo qualcuno che lo suonasse da tempo e James mi ha suggerito Robyn. Ma non lo so, non è mai una cosa calcolata. Non sono il tipo che quando scrive musica si siede e pianifica.

Il viaggio non è finito ancora, perché manca l’ultima tappa: la Grecia. CSI: Petralona è stata scritta durante il tuo primo viaggio ad Atene, dove ti sei trasferito poco dopo. Puoi dirci la sensazione e lo stato d'animo dietro quella canzone? E perché proprio la Grecia?

A Londra mi annoiavo e mi sentivo stantìo. Non riuscivo più a trovare ispirazione. Sai, mi mancava quella capacità di notare le cose, di essere ricettivo nel modo in cui devi essere per creare.
Nella mia testa avevo un’idea romantica della Grecia e di Atene, perché ho studiato per molto tempo filosofia e per quasi tre anni ho letto filosofi greci classici. Così sono partito, sono stato là per un mese e ho scritto CSI:Petralona quando sono tornato. È stata un'esperienza che mi è piaciuta molto, in particolare per l’atmosfera. È molto diversa da Londra, è più calda. Non intendo solo il clima e la temperatura, ma proprio lo spirito della gente che sembra avere molto più tempo da passare insieme. Mi sono subito sentito a casa. Quel periodo poi è stato ancora più speciale: era maggio, era stato appena sospeso il divieto dei viaggi ed era stato allentato il coprifuoco. E così, c'era un pandemonio per le strade, ovunque erano tutti eccitati e felici. La gente usciva tutto il tempo, ogni sera. Per me che da mesi non passavo del tempo con così tante persone, andare in un posto del genere è stato abbastanza travolgente. Quella sensazione, quasi di sovraccarico sensoriale, era preponderante.

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Hai scoperto qualche artista greco in quei mesi che magari ha anche ispirato il tuo album?

Non proprio, perché quando mi sono trasferito in Grecia, avevo già scritto la maggior parte di questo disco. Magari, forse per osmosi, la musica greca tradizionale finirà per influenzare i miei futuri lavori. Mi piace molto la musica tradizionale greca. Potrebbe influenzare il modo in cui scrivo la melodia, per quanto riguarda i testi invece è complicato. Il mio greco non è abbastanza buono da capire che cosa cantino ed è un peccato. Vorrei migliorare in modo da poter capire cosa stanno dicono anche perché sembra ancora esserci una connessione molto forte tra la società greca e la musica tradizionale, il che è incredibile. È una cosa che in Inghilterra si è persa: non credo che ci siano molti miei connazionali, della mia stessa età, che conoscono le canzoni tradizionali inglesi. In Grecia tutti conoscono le parole e cantano.

L'album non è un semplice diario, ma ha molti personaggi al suo interno. Uno di questi è l'Idolo, in.

Quella canzone parla di responsabilità e in realtà il protagonista non è la rappresentazione di una persona specifica. Idol; RE-run ha più a che fare con la rotazione delle persone nel loro essere dei simboli. L’arco è simile per tutti, prima si sale e poi si scende. C’è chi un giorno è un leader, o una pop star, e il giorno dopo non lo è più.  Quando l’ho scritta pensavo molto al modo un cantante che conosco, un mio amico, veniva trattato dall’etichetta discografica.

C’è da dire che per fortuna da qualche tempo si è iniziato a parlare di salute mentale anche nel mondo della musica.  Cosa si potrebbe fare per sostenere di più gli artisti a livello psicologico?

È molto complicato rispondere, non sono così intelligente e preparato da poter sapere esattamente cosa sia necessario fare. Sicuramente esiste una connessione tra la mente creativa e la possibilità di incasinarsi la testa. Per questo bisognerebbe prima di tutto eliminare lo stigma. È probabilmente una cosa ovvia da dire, ma penso davvero che si possa fare. Possiamo rendere più facile per le persone chiedere aiuto se stanno passando un brutto momento.  Penso che l'industria musicale si dimostri spesso piuttosto indifferente verso questo tipo di vulnerabilità, soprattutto quando si tratta di persone giovani. Sono convinto che sia iniziata un'altra pandemia globale dopo il Covid-19, indipendentemente dal settore: una pandemia a livello di salute mentale che era pronosticabile dopo quello che è successo negli ultimi due anni.

Tutti i personaggi dell'album trasmettono colori diversi, come l’artwork dell’album. Sei tornato a collaborare con Bráulio Amadio. Qual è il significato dietro tutti quei colori e figure?

Adoro lavorare con Braulio. È un bravo ragazzo, molto talentuoso. L’idea è nata quando sono andato alla National Portrait Gallery, circa un anno e mezzo fa. Tra le opera in mostra c’era il Trittico di Prometeo che mi ha rapito in tutti i sensi, sia per la grandezza che per i colori. Così mi sono informato sull’opera e ho scoperto che c’erano molti punti in comune tra l’autore e la situazione che stavo vivendo io nel registrare l’album. Era qualcosa che catturava la mia immaginazione in quel periodo, e volevo incorporarla da qualche parte. Ho creato delle immagini dai miei pensieri con l’intelligenza artificiale e ho inviato le immagini generate a Braulio per rimodellarle, abbellirle e dipingerle. Quindi c’è un elemento umano, ma anche quella stranezza che non saresti in grado di imitare correttamente senza l'uso della tecnologia.

A Lens Turning è una delle mie canzoni preferite. La traccia cambia molto durante i sei minuti di durata, come il protagonista della canzone: «I don’t know who I am anymore, forgot what I was looking for / I’m not the same». Puoi dirmi qualcosa di più sulla genesi di questa canzone?

È stata una delle prime canzoni su cui ho lavorato. È iniziato come un esperimento, un modo diverso di scrivere. Quindi, non sono partito dalla chitarra, ma da un pattern di batteria. In sintesi, avevo questa chitarra abbastanza semplice e la batteria. La prima demo era più morbida, mentre la batteria nella versione finale è quasi abrasiva e penso che funzioni davvero. Quando James ha suonato la batteria è cambiato il sound. La canzone nasce come una rappresentazione audio di un attacco di panico. È l’equivalente del raggiungimento di uno stato febbrile, quando i pensieri si ripetono e la mente accelera troppo e si surriscalda.

Nell'ultima traccia Pilot Was a Dancer prendi letteralmente il volo. Le sonorità prendono una piega che non siamo abituati ad ascoltare nelle tue canzoni. È un possible indizio del Westerman del futuro?

Penso che tu debba sempre tentare di spingerti oltre i tuoi limiti, quando smetti di farlo sei al capolinea. Per cui io non credo che sia necessariamente un’anticipazione del mio sound futuro. Aveva senso per me inserire una canzone del genere come una sorta di climax alla fine del disco, perché penso che ci sia una tensione nel contenuto dei testi delle altre tracce. Una sensazione di contenimento, costrizione e lotta con l'idea di libertà o mancanza di libertà. Penso che musicalmente avesse senso avere un finale liberatorio. Ci sono punti nel disco che sono abbastanza misurati in termini di arrangiamento e quindi è stato divertente scatenarsi. Sì, mi è piaciuto registrarla e sarà divertente suonarla dal vivo. Che poi è quello che dicevamo all’inizio: è tutto frutto di autoanalisi e liberazione.

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Westerman sarà live in Italia il prossimo autunno:
16 novembre 2023 @ Biko, Milano
17 novembre 2023 @ Covo Club, Bologna