06 luglio 2022

Ballare per dimenticare i problemi della vita: intervista ad Alice Robber

Spesso e volentieri quando nella nostra testa c'è un pensiero pesante ed ingombrante non facciamo altro che stare distesi sul letto, cercando di smarcarlo, ma prontamente torna a galla. Un rimedio a questo potrebbe avercelo insegnato Alice Robber, classe '97, di Roma, che ci ha perfino scritto un EP, Dancing Sadness, riguardo questo senso di malessere generalizzato. La "magica medicina" è ballare sui problemi della vita, o meglio, ballare per dimenticare, per non pensarci più, perché è proprio quella danza che potrebbe poi fornirti la giusta strada da percorrere per risolvere il problema. Cantautrice poliedrica, ha scelto un genere (il filone dance) già di per sé molto particolare e inedito, miscelandolo con dei ritmi molto catchy.

Ci abbiamo fatto quattro chiacchiere in tranquillità all'Auditorium di Roma, dove, tra un tè al limone (mio) e un acqua minerale (sua) siamo riusciti a confrontarci restando lucidi e sobri.
Ovviamente tutto questo prima del concerto, ci teniamo a sottolinearlo.

Come mai la scelta di voler cantare in inglese?

Perché ho sempre scritto in inglese. Non mi sono mai cimentata con l’italiano perché non mi è mai venuto naturale farlo. Fin da quando son piccola ho studiato inglese.

Spesso, vari artisti che hanno iniziato la strada dello scrivere in inglese, oggi hanno pubblicato un album anche in italiano. Potrebbe accadere anche a te?

Sì, perché no. Sono molto aperta a questo tipo di influenze, magari, che so, scriverò in francese... chi lo sa! Credo, comunque, che la lingua con la quale uno scrive, va di pari passo con l’estetica della musica che vuoi fare. Vuoi o non vuoi la lingua trasforma il mood della canzone. 

Questo, però, non ti mette un po’ paura? Nel senso: non hai paura di arrivare poco e in modo indiretto con i tuoi testi al pubblico italiano?

Sicuramente sì, però non è una paura. Arrivo in modo meno diretto, però ricordo, ad esempio, che io sono cresciuto con la musica inglese e associavo un sentimento a quel determinato brano pur non comprendendo le parole. Non capire il testo, non significa necessariamente che non ti arrivi nulla del pezzo.

Le melodie le hai sempre composte tu, autoproducendole?

Sì, siamo io e due produttori (StudioCorrente). 

Come vi regolate con l’equilibrio di un brano e la sua messa a punto?

Dipende. Di base scrivo i brani e poi glieli faccio ascoltare e da lì capiamo come vogliamo lavorarci e che tipologia di suono vogliamo dargli. Se la canzone è completa, loro lavorano soltanto sui suoni, se invece la canzone è poco strutturata, ci pensiamo assieme. Comunque, di base, prima lavoro io e poi loro. È un po’ uno scambio comune. 

Oggi (20 maggio, ndr.) concerto all’Auditorium: cosa significa per te suonare dal vivo e fare questa esperienza?

Chi è che non sogna di suonare all’Auditorium?! Ho visto tantissimi concerti qui e mi fa molto strano che oggi suono io. Inoltre, tre settimane fa ho suonato all’Alcazar e anche lì è stato fantastico.

Ho notato che, rispetto al 2019, c’è stato un passaggio graduale ma netto ad una musica più dance. Oltre ad essere cambiata la tua consapevolezza di far musica, come giustifichi questo passaggio?

Sono cambiata, in primis, io in prima persona. Avevo 21 anni quando è uscita No Place ed ero a Londra. Non avevo assolutamente idea di come la mia musica potesse parlare al pubblico, che sound potesse avere, quale forma desiderassi. Semplicemente scrivevo e principalmente quello che usciva andava bene. Ora, ovviamente, non è più così. In questi tre anni sono cresciuta, anche e soprattutto per il tipo di musica che ho ascoltato. Sono diventata più sicura di me: ora so veramente cosa voglio dire e trasmettere. Uno cresce e anche ora, ascoltando l’EP, so già che non è vecchio, ma so che voglio scrivere altro, voglio cambiare. È stato finito di produrre a gennaio, ma terminato di scrivere almeno un anno fa.

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In quanto a contenuti, invece? Li senti già lontani?

Li sento sempre miei. Ma la differenza con gli altri singoli, è che quando li suono live riesco a tornare nell’esatto momento in cui li ho scritti effettivamente, cosa che ad esempio con No Place o You Are non accade più. Forse perché questi singoli non avevano una linea guida, mentre l’EP è stato pensato nei minimi dettagli: i brani devono parlare di questo, il sound deve essere proprio così… quindi, sicuramente, più ragionato.

Hai passato un lungo capitolo della tua vita a Londra: cosa ti ha trasmesso musicalmente la metropoli? Anche con esperienze di vita non legate per forza di cose alla musica...

Era il sogno che ho sempre avuto. O Londra o New York ed era necessario che andassi in uno di questi due luoghi. La cosa difficile era proprio decidere di partire e andare, perché a vent’anni, da che vivi con tua madre ad andare a vivere da sola a Londra era un grande salto. È una scelta di coraggio, però ho pensato che avrei avuto un enorme rimorso se non l’avessi fatto in quel momento. Quindi mi ha cambiato totalmente.

Sono i primi tuoi concerti di un tour estivo più grande? 

Speriamo che questi possano essere una base per il futuro. 

Torniamo all'EP: secondo te, Dancing Sadness potrebbe essere una buona colonna sonora per quale libro?

Allora, il primo libro che mi è venuto in mente è A Little Life di Hanya Yanagihara. Un libro molto bello, ma veramente triste. Succede qualcosa e pensi sia la più triste, ma ne accadono altre ancora sempre più terribili. Questo, però, ti dà la forza di continuare a resistere e vivere nonostante queste disgrazie. E per me questo è assurdo: io Alice, magari, mi butto giù per una cavolata. E quando ho letto questo libro ho ragionato alla enorme forza che può avere un essere umano quando affronta i problemi della vita. 

Ho apprezzato molto la melodia e la composizione dei suoni in Fever: com’è nata?

Fever parla di un momento, un periodo in cui non sapevo minimamente chi fossi e cosa sentissi. Mi sentivo soltanto “terribile”, mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, non mi sentivo nel mio corpo. C’è una frase nel brano che dice proprio: “Sadness looks better when you’re dancing”, da cui poi è venuto il titolo dell’EP. Proprio perché mentre scrivevo sia Fever che gli altri brani, la cosa che volevo di più era non volere una base, una melodia pesante, poiché già, magari, il testo, già di per sé, un po’ lo era. L’idea, nel periodo lockdown, era quella che quando avessi avuto nel futuro la possibilità di suonarlo, l'avrei voluto ballare. Lasciare andare queste emozioni che al momento mi appesantivano tantissimo e la volontà che un domani sarebbe stato prodotto in modo dance mi dava la forza di continuare a scriverlo. Era un voler dire: butto fuori veramente tutto quello che sento, perché poi so che tra qualche tempo lo potrò trasformare in un qualcosa che mi farà star bene, proprio come la danza.

Endless e Falling In The Deep, almeno sul piano musicale, sembrano essere collegate: è voluto?

Di certo entrambe hanno un significato e filone narrativo comune. Falling In The Deep è stata la canzone che ho scritto subito dopo Endless e anche per questo è in tale posizione nell’album. Era proprio la sua continuazione naturale. Ho deciso di metterla alla fine, perché è la chiusura perfetta di tutti gli altri cinque brani dell’EP. Con il ritornello che dice: “We’re falling in the deep and it’s alright”. È una cosa che mi ricorda che qualsiasi cosa succeda, magari stiamo cadendo nel vuoto, ma va bene. Mi faceva piacere chiudere l’EP con questo messaggio, nonostante nei testi non ci sia questa grande positività. È il riassunto del Dancing (felice, positivo) contrapposto ma parallelo alla Sadness (dei testi, per l’appunto).