Quando nel 2020 Bedroom fu accolto a braccia aperte da critica e pubblico in UK, il precoce titolo di "nuovi paladini dello shoegaze" poteva rischiare di tarpare le ali ad uno dei progetti più interessanti degli ultimi anni. Per i bdrmm questa descrizione è stata più che altro una vera e propria spinta a spingersi oltre e affermare con tutto il proprio coraggio la vera identità. Nel 2023 il loro secondo lavoro I Don't Know aveva infatti sottolineato ancor di più la bontà della materia prima grazie all'aggiunta di sintetizzatori ed un suono ancor più unico nel panorama musicale.
Dopo soli due anni la band nativa di Hull ci delizia con l'acclamato nuovo album Microtonic, un saggio della scena elettronica vivissima in UK con i tratti distintivi dei primi lavori: la voce eterea di Ryan Smith, l'energia delle chitarre dello stesso Ryan e di Joe Vickers, le atmosfere cupe.
Se prima si poteva definire i bdrmm in rampa di lancio, ora non si può più temporeggiare: sono pronti per prendersi la scena attraverso uno dei progetti più credibili del decennio e live che fanno invidia a band ben più famose. Per farci raccontare il nuovo disco e la loro ascesa, abbiamo fatto due chiacchiere con il bassista Jordan Smith, fratello di Ryan, in attesa di rivederli dal vivo a marzo a Milano e Bologna.

Partiamo subito dal listening party virtuale che avete organizzato su Bandcamp in occasione dell’uscita di Microtonic. Un’idea che mi ha incuriosito, visto che voi eravate in una sala prove e online c’erano persone da ogni angolo del mondo.
Un vero piacere anche per me! Abbiamo deciso di ascoltare il disco insieme a chiunque volesse ascoltarlo con noi dopo averlo suonato per 3-4 ore in sala (ride, ndr). Una bella sensazione vedere gente prenderne parte, interagire, vedere le loro reazioni: regala più soddisfazione e felicità di quanto ci si possa aspettare ovviamente, soprattutto nel momento in cui sta per uscire un disco, un lavoro a cui ci si è dedicati giorno e notte.
Microtonic è il terzo disco in 5 anni (qualcuno in più se si considera il tempo di scrittura per il primo). Una vera e propria impennata. A che punto vi sentite del vostro percorso, se ne avete uno in mente?
Penso che quella attuale sia la versione più sicura dei propri mezzi e della propria direzione di sempre. Il nostro è un percorso che definirei tumultuoso: non nel senso di battaglie interne o problemi, ma piuttosto dal punto di vista di quello che volevamo essere come musicisti e come riuscire ad esprimere tutto il nostro potenziale. Siamo stati enormemente fieri di Bedroom (2020, il primo disco, ndr), ma il riscontro della critica e del pubblico rischiava di essere più difficile da digerire che altro. Siamo subito stati etichettati come band shoegaze perché nel disco sono emersi certi suoni e certe atmosfere che effettivamente lo ricordavano, ma in quanto giovani ragazzi di Hull volevamo semplicemente fare quello che sentivamo di fare in quel momento sulla base dei nostri ascolti e del nostro vissuto. Diciamo che è stato come se di tutto quello che si poteva sentire in quel disco, tutti avessero voluto concentrarsi sullo shoegaze etichettandoci così da subito. Non c’era nessuna predisposizione, semplicemente è stato quello che eravamo in quel momento. Per questo il secondo disco (I Don’t Know, 2023, ndr) è stato per noi una necessità e anche un certo 'ingombro' mentale e psicologico: ripetersi avrebbe significato scegliere un genere o un canale, mentre in noi c’era tanto altro e quindi in studio è stato molto difficile concentrare le energie su un prodotto che rendesse giustizia alla nostra personalità e al tempo stesso al nostro debutto. La direzione sonora tracciata con I Don’t Know è stata utilissima per sgombrare la testa e arrivare carichissimi a Microtonic, in cui ci siamo espressi in totale libertà: quello che ne è uscito, senza pensare ad accontentare qualcuno là fuori. Penso sia il miglior disco che potessimo produrre ora. Sono davvero felice.
So che ora vivete tutti in città diverse. Questo vi aiuta nel ricercare la vostra identità e metterla poi nella band?
Ryan ora vive a Manchester, io sono a Leeds, Joe è rimasto ad Hull. Ognuno vive una realtà diversa e ha un suo vissuto e questo si riflette indubbiamente sulla propria libertà di fare ricerca e di provare nuove cose. Siamo anche più esperti e più sicuri nel momento della scrittura e della nostra produzione personale. Ognuno sfrutta tantissimo Ableton per produrre basi o tracce, ogni tanto le condividiamo per trovare punti di interesse comune e così il tempo di prova effettiva in studio è ridotto.
Anche per Microtonic continua il sodalizio con Alex Greaves in produzione. Ha influito sulla vostra scelta di virare in modo così deciso verso l’elettronica?
Alex in un certo senso è estraneo alla nostra scelta, ma ci ha sempre molto incoraggiati a sperimentare con l’elettronica. Come al solito è stato davvero d'aiuto e in generale sempre incoraggiante, cresciamo e impariamo da lui che ci sprona anche a scegliere la via più difficile se necessario a fare un salto di qualità. È sempre un piacere essere in studio con lui.

Vorrei concentrarmi sulla vostra transizione verso l’elettronica perché penso ovviamente sia la novità più vistosa ma anche quella più interessante. Qualcosa si era sentito in I Don’t Know, ma poi sono arrivati i singoli Mud e Standard Tuning che sono stati il vero segnale di svolta a mio avviso. Come siamo arrivati, artisticamente, a Microtonic?
Dunque, come dicevamo poco fa I Don’t Know è stato un disco complicato per quello che avevamo fatto prima fino a quel momento e per quello che in un certo modo avremmo voluto che la gente riconoscesse in noi. Ryan si è occupato principalmente della composizione, io ho più che altro partecipato ad un paio di brani. Venivamo da un momento in cui le chitarre erano davvero le protagoniste indiscusse della nostra musica, ma noi sentivamo di voler essere anche altro e ci siamo resi conto che nei due brani a cui avevamo lavorato che erano rimasti fuori dal disco - proprio Mud e Standard Tuning - c’era molta elettronica come tratto comune. Qualcosa che ci faceva sentire effettivamente liberi, fuori da quel paradigma di band shoegaze con le chitarre nonostante Joe e Conor non si trovassero male in quel mondo, mentre io avevo già iniziato a modificare il mio approccio introducendo, nei brani e nei miei ascolti, anche le tastiere e i synth. Standard Tuning è anche stata la prima volta in cui io e Ryan abbiamo collaborato in maniera aperta e schietta a un brano prima di portarlo in studio: c’erano un po’ di loop di piano a cui lui aveva lavorato mentre io mi divertivo su beat e batterie elettroniche. Abbiamo unito i pezzi e ne è uscita una cosa che funzionava davvero bene, il che ci ha permesso di riflettere su quanto fossimo soddisfatti e contenti del risultato.
Mi sembra che questo abbia inciso anche sul modo in cui lavorate in fase compositiva.
Ci siamo resi conto che la nuova direzione era interessante e aveva una sua identità, che ci poteva inoltre consentire di continuare a crescere dandoci spazio ed esperienza in produzione. Non meno importante, ognuno è letteralmente libero di provare tutto ciò che vuole a casa, nei propri spazi, per poi trovarsi in studio e provare a far combaciare i pezzi: letteralmente il tempo si può abbattere del 50%, che può a sua volta essere utilizzato per ulteriori esperimenti. Non ci sono input esterni dagli altri membri della band, almeno nelle fasi iniziali in cui ognuno sperimenta e prova a concretizzare le proprie idee, poi lo si passa agli altri per vedere cosa possono aggiungere: è una scrittura molto più collaborativa. Ti permette di concentrarti su quello che in un certo momento ritieni essere importante e invitante, rendendo tutto molto più frenetico ma al tempo stesso produttivo e interessante, evitando quei momenti in cui tutto sembra grigio e vorresti mollare. Nel disco ci sono diverse parti che sono frutto di lavoro portato avanti contemporaneamente da più membri. L’esempio più lampante è il brano Sat in the Heat, in cui io stavo registrando le mie parti da tutt’altra parte rispetto a Alex (Greaves, ndr) che registrava con Conor la batteria.
Questo aspetto lo ritroveremo anche nei live? Chi si occuperà di suonare tutte le nuove parti elettroniche?
Tutti daremo qualcosa in più (ride, ndr)! Uno sforzo olistico, lo definirei. Io e Ryan sicuramente, oltre a basso e chitarra, continueremo a suonare sintetizzatori e tastiere, ma anche Joe (seconda chitarra, ndr) ne avrà almeno uno e Conor (batteria, ndr) si occuperà delle drum machine. Ci sono poi alcuni brani in cui dei loop pre-registrati faranno da base, come si può sentire in Snares. Insomma, ci saranno molto novità anche dal vivo e siamo tutti molto entusiasti all’idea di vedere la reazione delle persone. Saranno concerti totalmente differenti da quelli dei primi bdrmm.

Il vostro intero progetto sembra si stia evolvendo anche dal punto di vista dell’immagine e di tutto ciò che sta attorno alla musica. Avete iniziato a pubblicizzare il nuovo disco attraverso una apposita pagina Instagram che sembrava afferire più che altro a qualche centro di ricerca e il video musicale di Lake Dissappointment è totalmente nuovo. Mi chiedo cosa vi ispiri al di fuori della musica per immaginare tutto ciò.
Beh diciamo che è una cosa inevitabile nelle nostre vite essere influenzati anche da quello che accade tutti i giorni e passa ad esempio sugli schermi, nei film o in qualsiasi show. Se ne parla sempre, fa parte della nostra quotidianità. Anche i singoli progetti che io, Ryan, Joe e Conor seguiamo personalmente e separatamente finiscono per avere un’influenza nel nostro collettivo. Non è per nulla facile pensare di condensare tutto in un disco, in 10 brani che devono dare un messaggio, far capire chi sei, cosa pensi. Per questo proviamo a metterci dentro tutto, da quello che vediamo nella vita di tutti i giorni a quello che guardiamo attraverso uno schermo o ascoltiamo nelle nostre cuffie.
Ti piacerebbe in questo senso occuparti di un film o una cosa simile?
Sarebbe sicuramente incredibile (ride, ndr). Direi di sì, ne uscirebbe sicuramente qualcosa di complicato e non-sense (ride, ndr). A parte gli scherzi, penso sarebbe un gran risultato realizzare un film. In realtà è una cosa a cui sto già lavorando in maniera indiretta cercando di studiare e sperimentare con gli atmospheric sounds e robe del genere. Mi interessa capire se è qualcosa con cui potremmo giocare anche come band.
Non solo film, visto che ti stai occupando sempre più degli artwork e della parte visual.
Esattamente. Un po’ tutti e quattro, in realtà, ci stiamo impegnando nell’essere sempre più coinvolti nel processo decisionale anche dal punto di vista stilistico e di immagine, senza semplicemente sederci e vedere cosa ci piace o no. Lo scopo in un certo senso è quello di provare a creare uno stile che da fuori ci identifichi immediatamente e possa risultare interessante anche dall’esterno. Con il prossimo disco potremmo fare anche meglio, secondo me c’è il potenziale per fare qualcosa di veramente figo e diverso dalla media. Come quella appunto di creare una pagina apposita che ha pubblicizzato il nostro disco. Gli esperimenti che abbiamo fatto per Microtonic saranno il template per quello che verrà.
Hai parlato di “outside perspective”, quello che si percepisce da fuori. Nei testi mi sembra che parliate in maniera definitivamente più aperta e meno introspettiva, o rivolta a chi scrive, forse con la sola esclusione di John on the Ceiling che ho letto essere stata scritta anni fa e poi adattata ai bdrmm di oggi.
Hai centrato tutto (ride, ndr). I testi li scrive Ryan e quindi parlo da esterno, senza essere totalmente conscio di quello che analizzo io come appunto entità estranea alla scrittura. Penso che Ryan si sia un po’ allontanato dalla narrazione personale e del suo vissuto e ha inevitabilmente iniziato a guardare molto di più a quello che coinvolge tutti noi nel mondo. L’ambiente circostante influenza chi siamo e come ci comportiamo, per cui penso che tutto quello che accade, tutte le sofferenze di cui si sente continuamente parlare e le esperienze negative con cui ognuno di noi ha dovuto fare i conti dal Covid in poi, abbiano un po’ spostato la sua attenzione verso l’esterno e verso dolori che coinvolgono tutti.
E tutto questo ci riporta a questa atmosfera distopica che è abbastanza evidente sia nelle atmosfere che nei video, come appunto quello di Lake Disappointment.
Assolutamente. Sembra tutto così assurdo, dalla politica alle guerre e al cambiamento climatico. Uno ascolta il telegiornale e le news e non può essere vero che stia accadendo tutto ciò. Le atrocità di due guerre che vanno avanti da anni, senza contare quelle di cui si parla meno, e un fott**o stron*o arancione (Trump, ndr) come presidente di uno dei più influenti Paesi del mondo. Orrore e atrocità in ogni direzione: non trasporre queste sensazioni nella musica è difficile se la musica è il tuo modo di esprimerti.

Come saranno ora i live con le nuove canzoni? Port è sempre stata quella su cui ti scatenavi, la tua preferita. C’è una nuova Port in Microtonic?
Non saprei, penso proprio di no, Port ha un’energia tutta sua e irreplicabile (ride, ndr). Nonostante ci fosse una buona base elettronica nella sua struttura, quello che siamo oggi la rende ancora più unica al momento, quindi penso che rimarrà al suo posto, senza una vera avversaria.
Avete tra le setlist più varie e ricche di colpi di scena. Alps, che si attaccava ad Angel dei Massive Attack, era un inizio perfetto per far capire al pubblico cosa potevano aspettarsi dai vostri concerti. Come sarà la prossima setlist?
Ci abbiamo ragionato molto per rendere giustizia al nuovo disco, ma ovviamente anche a tutto il nostro trascorso, e temo che Alps perderà il suo posto in favore di qualcosa che sarà ancora più identificativo. Ma la vera difficoltà è diventata quella di scegliere le canzoni da suonare live, visti i tre dischi e i vari singoli. Quella provvisoria prima del tour è di 18 brani, che equivalgono quasi a due dischi: un’impresa suonarli live per come ce li immaginiamo noi, ma vorremmo rendere giustizia a tutto il nostro percorso. Quello che posso anticipare è che effettivamente l’inizio strumentale è una bella presentazione per noi e quindi rimarrà.
Come vi fa sentire questa libertà di scelta proprio su tre diversi album e un EP? Tanto materiale di cui andare fieri.
Effettivamente fa un certo effetto, sia vedere dove siamo arrivati, sia selezionare quelle canzoni che potrebbero essere d’aiuto per lo spettacolo e per rappresentarci sulla scena live. Dopo Bedroom eravamo carichi, le finestre live erano brevi e quindi dovevamo dare il meglio su quello che avevamo in quel momento, ma ora i dischi aggiungono materiale e dettagli su noi come musicisti e quindi si fa dura.
C’è qualcosa in Microtonic, oltre all’elettronica, su cui vorreste concentrarvi per il futuro?
Penso che ci sia sempre un filo conduttore nella nostra musica e vogliamo sicuramente continuare su questo percorso di evoluzione senza snaturarci e senza perdere la nostra identità. Un continuum, che dalle chitarre di Bedroom passa all’elettronica di Microtonic e raggiunge il prossimo step con un solo e unico vero obiettivo: fare buone canzoni. Detta così sembra banale, ma non vogliamo pubblicare tanto per pubblicare: sfrutteremo il nostro tempo e il nostro entusiasmo per fare il massimo che possiamo offrire alla scena musicale. Inoltre, come dicevamo poco fa, sviluppare in maniera definitiva un concept che sappia comprendere musica, artwork e visuals sarebbe davvero bello.
Come ulteriore feedback, avete già completato il tour in UK e ora siete nel pieno del tour europeo. Riscontri ed impressioni? Come sta andando?
Beh tornare in Europa per noi è sempre una grande emozione, fa sempre un certo effetto vedere l’appoggio e la passione delle persone anche lontano da casa. Sarà bellissimo e proprio non vediamo l’ora di venire da voi in Italia.
Oltre alle date a marzo, avremo anche la possibilità di vedervi a qualche festival quest'estate?
Penso di sì, ma non mi voglio sbilanciare. Al momento non c’è nulla di concreto, ma vedremo.
