Lo Stato Sociale si fa in cinque e svela un lato inedito dei suoi componenti. Dopo il successo sanremese Una vita in vacanza, Bebo, Checco, Carota, Lodo e Albi tornano con i loro album da solisti. Cinque lavori da cinque tracce che vogliono esprimere l’idea del collettivo, quella di essere cinque uomini con sentimenti ed esperienze diversi, ma soprattutto cinque modi differenti di fare musica. Un progetto necessario, pensato come risposta alla fama crescente che li stava schiacciando ma che al tempo stesso li ha portati a ripensare la loro carriera. Ne abbiamo parlato con Francesco “Checco” Draicchio, autore di un ep che evade dagli schemi giocosi del collettivo per approdare in un malinconico punk, espressione del suo animo sensibile come la sua chitarra acuta e distorta, protagonista di Barca, che ci riporta ai primi Verdena e Vivere, un ribelle urlo primordiale. Un lavoro che è un’esplorazione dell’io, una ricerca avida di spiensieratezza, affetti, libertà per accettarsi così come si è, per scoprire che nel bene e nel male si è diventati grandi. Checco si racconta in Perso, si abbandona ai ricordi che hanno costellato la sua vita, fa il romantico futuristico in DeLorean, avanza nel suo viaggio introspettivo a ritmo di basso e sintetizzatori, fino a «bruciare, bruciare, bruciare» e unirsi con il cosmo in Luce, per salutare un’ultima volta con tenerezza un carissimo amico, Mirko “Zagor” dei Camillas. Abbiamo raggiunto Checco al telefono, in partenza con il gruppo per la prossima avventura a Sanremo.
Checco, definirei il tuo ep “manifesto dei 30 anni”. Un’età complicata, soprattutto oggi. Come la stai affrontando?
«È un’ondata di eventi in crescita, dal successo nei palazzetti a Sanremo. L’ep è un po’ una somma di quello che mi è successo dopo i 30 anni. Nel 2018, l’anno del festival, sono diventato papà. L’ep racconta la mia maturazione ma anche il mio smarrimento dopo Sanremo, quando sembrava che Lo Stato Sociale avesse concluso una fase della carriera. Avevamo anche notato il fatto che eravamo cambiati tutti, c’è chi si è sposato, chi ha cambiato vita. Abbiamo ripensato alle dinamiche della nostra discografia e abbiamo scoperto di essere cresciuti, così abbiamo sentito il bisogno di raccontare noi stessi. L’ep narra questi stati, queste istanze di cambiamento».
È stato difficile per te aprirti?
«Non particolarmente, ho narrato alcuni istanti della mia vita, non è stato un atto di coraggio quanto una necessità per la sopravvivenza del collettivo, perché il mondo che avevamo coltivato da ragazzini era mutato: era un lavoro, non era più una gita in furgone con gli amici. Su questo ci avevamo fatto i conti sopra, perché con l’esposizione di Lodo tutto si è un po’ schiacciato verso di lui e ha assunto una connotazione di professionalità, è diventato tutto più serio, quindi abbiamo dovuto ripensare al gruppo, alle nostre vite e al modo di esprimerle e farle uscire dalla poetica della band. La poetica dello Stato Sociale è collettiva ma è anche un compromesso tra le nostre vite, non c’è un’identità chiara dietro alle nostre canzoni. I nostri cinque dischi da solisti offrono la nostra visione individuale e personale».
Nel tuo album hai un costante bisogno di leggerezza, amore, positività. Li hai cercati anche durante il lockdown?
«Non mi sono trovato bene durante il lockdown, ero abituato a una vita dinamica, tra lavoro, tour, prove, videoclip e interviste. Fino a maggio facevo l’informatico. Sono passato di colpo all’inerzia ma ho cercato di trovare una sorta di normalità quasi immediatamente. Tre canzoni dell’album sono state scritte circa tre anni fa, ma Barca e Luce sono state scritte l’anno scorso per cercare di riempirmi le giornate e per raccontare ciò che mi stava succedendo, non nel singolo momento della pandemia ma nella mia vita da trentenne, nel momento in cui mi sono sentito di essere diventato adulto».
Parliamo dello Stato Sociale. Cosa vi ha portato a scegliere Combat pop per Sanremo?
«Ovviamente non scriviamo canzoni per andare a Sanremo! Noi abbiamo un gruppo di brani, li scriviamo, li prepariamo negli anni. Avevamo cinque brani, siamo andati dal discografico, gli abbiamo chiesto quale fosse il migliore e ha pensato a questo brano. Si è trattata di una scelta stilistica, ma il tema racconta una parte di noi. La canzone mette in contrapposizione quello che andremo a fare al festival. Dice infatti: “Ma che senso ha vestirsi da rockstar, fare canzoni pop per vendere pubblicità?”».
A Sanremo ci saranno con voi i lavoratori dello spettacolo.
«In quanto artisti non possiamo fare altro che raccogliere le istanze e farci portatori di voci che rimangono sempre un po’ in sordina, quelle dei lavoratori dietro le quinte. Gli artisti, essendo abbastanza in vista, possono dire la loro e portare la testimonianza delle persone con cui condividono la vita da tour. Noi siamo in perenne contatto con i nostri tecnici, che sono anche nostri amici. Su quel palco porteremo anche le considerazioni che abbiamo fatto insieme».
Si poteva fare di più per loro?
«Ci si può organizzare con associazioni, eventi e movimenti per evidenziare il momento tragico che stiamo vivendo. Attendiamo le istituzioni, ci fidiamo per quanto possiamo di loro e del comitato tecnico scientifico».
Fotografie di Jessica De Maio.
Una parte dell'intervista è stata pubblicata su InCronaca, testata del master in Giornalismo dell'Università di Bologna.