I FASK sono tornati con il nuovo album Hotel Esistenza: abbiamo incontrato Aimone Romizi e soci all'Est Bar di Milano per farcelo raccontare.
Ho sempre pensato che un titolo interessante per un album dovesse essere figo almeno come quello trovato dagli Strokes per il loro sesto: The New Abnormal. Ma che figata, dai. Ti fa domandare: ma perché, ce n'era una già prima? Una vecchia? Una originaria? Al contempo è anche musicale. "Abnormal", prima e seconda lettera dell'alfabeto, una dopo l'altra. E poi il termine "normalità". Filosofico, calato in quel contesto. Quando ho ascoltato per la prima volta Hotel Esistenza, il settimo disco dei Fast Animals and Slow Kids (non me ne vogliano i FASK, il titolo è figo ma non come The New Abnormal, scusate) ho sentito che ogni parola di questo nuovo lavoro fosse dosata, così come i suoni. Facendo due più due dentro di me ho capito che questa sensazione, l'ultima volta, l'avevo provata proprio nel 2020 con la band di Casablancas. Che la nuova anormalità sia soltanto l'esercizio di una normalità innovativa? E che i FASK lo abbiamo capito prima di tutti in Italia, secondi soltanto agli Strokes?

Dicevamo dei suoni: Hotel Esistenza sembra un abisso in confronto soltanto anche a tre anni fa quando i perugini fecero uscire È già domani. Aimone Romizi li ha definiti più avanti in questa intervista come suoni chitarrosi e credo non ci sia termine migliore. Perché oltre a sembrare una malattia neurodegenerativa non ancora scoperta o della quale ancora non si è trovata la cura, l'essere chitarroso rivendica già nel suo termine iniziale un'autonomia compositiva fuori da ogni schema. In Hotel Esistenza si trovano i Vampire Weekend degli albori ma anche lo shoegaze dei Ride, il tutto calato in un contesto di puro rock. Qualche avvisaglia c'era anche nel dress code di Aimone durante la chiacchierata che ci siamo fatti: maglia nera degli iconici Misfits, letteralmente "disadattati". Lungi da me definire così i Fast Animals and Slow Kids ma Hotel Esistenza incarna proprio questo sentimento qui e lo ribalta: ma chi può definirsi, durante l'arco di un'intera esistenza, come normale? Ed è proprio da qui, dai termini "vita" e "normale" che siamo partiti con Aimone (dove non specificato, infatti, a rispondere è sempre lui). Parole apparentemente normalissime (per l'appunto) che, però, calate nel contesto di questo disco assumono tutta un'altra fisionomia.
Avete descritto il disco come un concentrato fatto di canzoni che parlano di una vita normale a cui nessuno crede più. Potete spiegare meglio il senso di questo concetto?
In realtà questa idea la esprimiamo nel primo pezzo del disco, Una vita normale, che è stata anche l'ultima canzone che abbiamo scritto. Questo concetto ci ha fatto sempre porre la domanda del perché si inizia ad avere un'idea di quello che si sta facendo sempre verso la fine di un percorso. In un processo creativo, come nella vita, ci si aspetta sempre di avere tutte le idee subito chiare. Alla fine, invece, quello che arriva è un'incognita, perché c'è la magia dello studio, c'è il momento, c'è l'istante che lasci fluire, soprattutto in ambito creativo. Questa cosa ce la promettiamo sempre di seguire.
Quindi, quest'ultimo pezzo l'abbiamo messo in cima perché è uno statement, perché parla un po' di noi, innanzitutto per un principio che è quello, appunto, del concetto di normalità. Più che altro del normalizzare la normalità. Il senso è: chi è che può definirsi davvero normale? Chi è che ha delle caratteristiche per dire di essere perfettamente inquadrato nella società? Tutti noi abbiamo le nostre derive, se vogliamo, ed è proprio per questo che è stupido parlare di normalità. Ma al tempo stesso è quella che tutti agogniamo. Quindi è un senso proprio di ricerca di sé. Una vita normale intesa proprio come libera dalle pressioni esterne, dai nostri giudizi nei confronti dell'altro. Cercare un attimo di trovarla nella propria espressività - che nel nostro caso è veicolata attraverso la musica - ma ognuno ha la propria che si può proporre in differenti modalità.

Questa normalità è anche declinata sul significato che diamo al diventare adulti. Perciò vi siete dati una risposta al quando è che sia, citandovi, "il momento di smettere di fare le cinque del mattino"?
Di pari passo a questa presa di coscienza c'è anche il fatto che non devi mai abbandonare il tuo io bambino. Bisogna combattere affinché ci sia sempre quell'energia giusta per poter affrontare la vita con spontaneità, con la purezza che hanno i ragazzini. Quindi, sotto questo punto di vista, non capiamo bene dove ci troviamo, non sappiamo se siamo diventati adulti o se ancora abbiamo dentro di noi quello... aspetta. Riflettiamoci. Allora, diciamo così, siamo sicuramente adulti, c'è poco da fare (ridono, ndr.) però non sappiamo quanto questa nostra condizione ci possa portare ad essere cinici e quanto invece ci debba portare a essere liberi. Probabilmente la via di mezzo è la cosa giusta, non lo sappiamo ancora.
Si associa molto la vostra band ad un altro termine, quello del cambiamento - non per forza nostalgico - sia da un punto di vista testuale che prettamente musicale. Fino a quando credete che un gruppo abbia la possibilità di cambiare ma senza per questo snaturarsi? Oppure, la ribalto: qualche volta, per capire fin dove potete spingervi, avete cercato di snaturarvi?
È un tema un po' scivoloso, problematico. Questo presuppone un giudizio esterno nei confronti di qualcosa che per noi è interno. In altre parole, noi non ci domandiamo cosa stiamo facendo, non lo facciamo mai con questo grado di distacco, non riusciamo a essere distaccati da noi stessi. Quello che succede è che noi, come sempre è stato, da quindici anni a questa parte, ci rincontriamo, iniziamo a scrivere dei nuovi pezzi insieme, partendo dalle parole, dalla musica, da un riff. Ogni volta c'è un giro nuovo, c'è qualcosa di innovativo e ci domandiamo se a tutti e quattro piace, arrivando poi ad una sintesi. In maniera anche un po' egocentrica il resto del mondo rimane fuori da questo percorso. Quindi se noi cambiamo, non ce ne accorgiamo. Così come tu non ti accorgi di avere un anno in più. Cioè, magari riscontri dei macrocambiamenti, è ovvio, ma come band ragioniamo sempre con questa visione profondamente personale. Quando si tratta di stravolgimenti, se anche è successo, non ce ne siamo resi conto. Perché snaturarsi è un cambiamento cosciente, invece, questo in particolare di cui ci hai domandato è insito dentro di noi, organico.

Che poi la verità è anche che molti tendono a cristallizzare la percezione che si ha delle altre persone, soprattutto in ambito artistico.
Esatto, ma quella determinata band cambia! E noi sotto questo punto di vista siamo anche un po' invidiosi, no? Forse invidiosi non è il giusto termine, però, insomma, siamo anche un po' curiosi del fatto che ci sono band che tranquillamente possono fare il proprio genere, le stesse cose per tutta la vita. Noi ci rompiamo le palle! Io non mi voglio annoiare quando faccio musica, voglio stare bene, voglio fare la cosa che mi identifica in quel momento. Deve esserci sempre qualcosa di nuovo, il castello si deve rompere e ricostruire. Certe volte viene più bello, certe volte viene più brutto, questo non sta neanche a noi giudicarlo, per noi comunque è sempre migliore rispetto a quello costruito in precedenza.
Entriamo un po' più dentro le canzoni di Hotel Esistenza. In Profezia dell'Armadillo di Zerocalcare c'è un passaggio che ho sempre amato che parla del vuoto pneumatico di discorsi che si ascoltano e ai quali automaticamente si partecipa quando si è ad una festa. Quando avete scritto Festa avete ragionato anche voi in questo modo?
Certo, c'è quella condizione umana in cui tutti noi ci siamo ritrovati. Poi ti dico, secondo me dipende anche molto dagli ambienti che si frequentano. Quando sei lì a stringere mani, a salutare persone ma nel mentre dentro di te ti annoi è tremendo e vale lo stesso principio delle canzoni: ti rompi i coglioni. Non sai di cosa stai parlando e perché lo stai facendo. Sono i festival del "ciao grande" e quella roba lì oggettivamente ci porta fuori strada. Sarà che siamo anche un po' chiusi, no? Un po' perugini... siamo in cima alla nostra collinetta senza neanche il mare intorno e quindi forse siamo fatti così. Però la verità è che nel 90% dei casi preferiamo una cena. Con quattro persone, avendo del tempo per parlare veramente, in un contesto magari un pochino più affollato o dispersivo.

Stiamo assistendo ad un momento storico nel quale si fanno molte manifestazioni, alcune di esse anche non approvate dai piani alti (o di più, anche degli scioperi non concordati con le istituzioni). Spesso, come dite in Brucia, sono un grande numero di ragazze e ragazzi a parteciparci, ma gli adulti sembrano essere finiti all'interno di una bolla di torpore e sembrano non mobilitarsi come una volta. Hanno smesso di fare le cinque del mattino da un po'. Perché e in che modo secondo voi anche questa frangia della società potrebbe tornare a partecipare in modo più attivo? Dovrebbero ascoltare di più la nuova generazione?
Veramente questa è una domanda da migliaia di dollari. Non saprei qual è il trick, però sappiamo che succede e lo abbiamo cantato in Brucia. Di base, non è che le idee che avevamo a 18 anni erano sbagliate perché avevamo 18 anni. In altro senso, le idee che avevamo da neomaggiorenni hanno perso forza, si sono rallentate nel tempo e adesso quello che viviamo è più un sentimento di delusione e meno di azione. Faccio un esempio. Mentre una volta ci saremmo incazzati, avremmo sfondato tutto, avremmo partecipato, saremmo andati in piazza, avevamo quell'energia lì, adesso, che sono passati anni, succede che il male che sperimenti ti crea una corazza intorno, in un meccanismo di autoconservazione. Quando diciamo che "il mondo è sempre peggio e fa sempre più schifo" è banalmente una non azione. Cioè, di fatto io sto semplicemente dicendo che il mondo è così una merda che tanto io da solo non posso risolvere nulla e scappo dal problema. È uno spegnimento della forza. Quindi, sotto questo punto di vista, quel pezzo dice proprio questo, che dobbiamo ritrovare in qualche modo quell'energia, perché sennò ci adeguiamo semplicemente ad un mondo sempre più negativo rispetto ad alcuni temi. Alcuni temi sono meravigliosi, ovviamente, però rispetto ad alcune tematiche che una volta ci avrebbero infiammato, adesso siamo totalmente disillusi. C'è questa passività latente, diciamo. E siamo bombardati in termini mediali, di notizie che arrivano. Diventano in poco tempo così tante che a un certo punto bisogna anche fermarsi e arrivare paradossalmente a scegliere quella che ha più risonanza dentro di me, quella che mi muove più delle altre. Sennò si tende all'immobilismo più totale.
Per rispondere alla domanda, non sappiamo minimamente come smuovere il nostro tessuto o la gente più grande di noi, però di sicuro una scelta potrebbe essere quella di partire dall'autoanalisi, da quello che eravamo rispetto a ciò che siamo oggi, guardando al nostro passato. Già questo potrebbe essere un passaggio iniziale importante.

I brani che tecnicamente mi hanno più colpito sono stati Cielo e Santuario. Della prima vorrei sapere come è nata l'idea di un riff di pianoforte così minimal, della seconda se ritenete che possa tornare in auge un post-shoegaze nei prossimi anni...
Allora, intanto a noi sembra che questo ritorno possa avvenire. Non tanto in Italia, ma c'è un po' di roba fuori con questi suoni molto lunghi, chitarrosi, che sta tornando. Ora, non so se si tratta della classica bolla, però ci arriva e quindi ci speriamo sempre. Però siamo anche abbastanza adulti da poter dire che sono almeno 15 anni che dovrebbe tornare il rock. Da quando abbiamo iniziato a suonare ci dicono "state tranquilli che a breve tornano le chitarre" e non è mai vero. Santuario comunque ha quelle reference lì e a noi gasava anche il fatto che comunque non c'è tanta gente in Italia che si può permettere di fare uscire un disco con dei pezzi che hanno riferimenti shoegaze. Questo è anche un po' un rivendicare una libertà compositiva che, in generale, su questo disco c'è sotto vari punti di vista. Si muove molto, è un disco molto eterogeneo. Per dire, è il mio (di Aimone, ndr.) pezzo preferito, quindi la sua posizione nel disco è stato per noi motivo di grande discussione.
Perché?
Perché a me e Jacopo (Gigliotti, ndr.) non ci piaceva tanto metterla verso la fine. La volevamo mettere prima. Però dopo in termini di scaletta non tornava...

E nel caso del pianoforte in Cielo?
L'idea minimale del piano è metaforica, perché la canzone inizia con una telefonata, le mie parole si infrangono sul telefono e quello rimanda leggermente al tu-tu-tu del telefono. Forse è solo una roba nostra... ci facciamo mille trip, come puoi capire, però evidentemente abbiamo anche tempo da perdere, questa è la verità.
Però, dai, se siete tutti e quattro concordi su questi trip, qualche fondo di verità ci sarà pure...
Ma sì dai. Siamo una band molto fortunata, suoniamo da tanto e suoniamo da tanto facendo esattamente quello che cazzo ci pare. E questo è un privilegio totale. Soprattutto nel 2024, con una musica ancora più veloce, ancora più istintiva, o meglio, più istantanea. Non avrei mai pensato che qualcuno ci potesse dire che Santuario rimandasse ai Ride per dirti, ma bisogna spingere su queste idee. È proprio lì che la musica secondo me assume via via un fattore più umano, che inizia ad espandersi e viene quindi ascoltata.
Qual è stata la canzone che vi ha più divertito scrivere e una che, invece, non vedete l'ora di suonare dal vivo?
Alessandro Guercini, Jacopo Gigliotti e Alessio Mingoli: Sicuramente Una vita normale. Ma è anche stato bello scrivere Brucia.
Aimone Romizi: Nel mio caso la risposta varia. Una vita normale io me la immagino come inizio del concerto, tra le prime, che sei lì che vieni trainato, una canzone che ti fa saltare, ti carica. Brucia, per esempio, ha lo stesso senso, ha lo stesso significato ma ti dà una carica di rabbia. Quindi, mentre da una parte c'è il bello dello stare a un live e condividere - che è poi la sensazione ultima da concerto che a me piace molto - dall'altra c'è anche la sensazione da concerto che è "oh ma questo è anche il posto ideale dove io posso buttare fuori la merda che ho dentro". È uno dei modi con cui io esterno la parte di me più nascosta, urlando una canzone.

Recupero il testo di Festa per un'ultima domanda: c'è una battuta ironica che vi ricordate di aver fatto - magari proprio ad una festa - e che non ha fatto ridere nessuno?
Guarda, lasciamo perdere. Noi abbiamo addirittura coniato il termine "umorismo Fask". È quando nessuno capisce la battuta o la situazione che a noi fa ridere che rimane di sasso. Abbiamo sviluppato delle gag talmente ormai inside joke...
Alessandro: Io sono abbastanza il re di queste cose...
Aimone: Lui fa cringiare tutti. Dico semplicemente "ma perché? Perché l'hai detto?"
Fa il Lundini della situazione, ecco...
Alessandro: E infatti sono anche il protagonista di uno dei racconti di Valerio nel suo ultimo libro...
Aimone: Ti voglio raccontare questa chicca. Non ricordo qual era il contesto, comunque eravamo in radio a fare un'intervista e Ale fa finta di non sentire perché gli avevano detto che se suoniamo con questi volumi alla fine finiremo per diventare sordi e lui, alla domanda, ha risposto: "eh?", fingendo quindi già di essere sordo. Però è una parte di noi, ecco. La dobbiamo accettare. È la normalità di cui parlavamo, no?
Guarda la nostra fotogallery completa dell'intervista ai Fast Animals and Slow Kids a cura di Maria Laura Arturi: