16 maggio 2025

"Inni e Canti ci ha resi davvero una band": intervista ai GIALLORENZO

Nel panorama musicale italiano esistono dischi che scelgono consapevolmente quando farsi ascoltare. INNI E CANTI, il nuovo lavoro dei GIALLORENZO, è uno di questi. Uscito il 25 aprile, una data che in Italia ha un peso storico e simbolico importante, l’album si è trovato a navigare in un calendario particolarmente “ostile”: incastrato tra due dei ponti festivi più lunghi dell’anno, con gran parte del pubblico in viaggio, in ferie, o semplicemente lontano dai radar social e promozionali.

Abbiamo incontrato Pietro Raimondi (montag) per farci raccontare com’è nato questo nuovo album, come si convive con un’uscita sfortunata dal punto di vista promozionale e perché certe canzoni, alla fine, sanno comunque arrivare dove devono.

I davanti all'Aeronautica Militare di Milano
GIALLORENZO

Il tema principale di INNI E CANTI è la guerra, che viene rappresentata sia come conflitto fisico, che interno dell'essere umano. Cosa vi ha spinto ad esplorare questa dimensione umana?

Principalmente è stata un'esigenza di stare di fronte ai fatti del presente che tante volte in realtà anima quello che facciamo. Siamo nel periodo storico in cui la guerra sta ritornando, non perché ha smesso di esserci ma perché di nuovo sta andando ad avere una funzione di svelamento della violenza che sta alla base dei rapporti tra le nazioni, tra gli strati sociali. Non solo la guerra ma anche la violenza come motore della storia sta ritornando ad avere una centralità che quando la nostra generazione era più giovane sembrava invece superata. Quindi da un lato c'è il tentativo di stare di fronte a questa situazione del presente, dall'altro c'è invece semplicemente la spontaneità. Il disco è stato arrangiato in quattro giorni a casa di Fabio e durante una di quelle sere è successo che mi sono trovato a rileggere i testi per cominciare già a immaginare quale sarebbe potuto essere il titolo del disco e vedevo che la guerra come riferimento ritornava spesso. Allora ho provato anche ad aggiungerla per disambiguare certi versi che in alcune canzoni mi apparivano un po' più vaghi e a quel punto è diventata proprio un'esplicita volontà di metterla al centro. Esempio curioso: abbiamo arrangiato una canzone che si chiama IRAN e nello stesso giorno è stata rapita Cecilia Sala e la notizia è stata di rilevanza pubblica, a prescindere diciamo dalle questioni che si potrebbero dire sul fatto e personaggio in sé. Ci ha colpiti la coincidenza, proprio il giorno in cui vedeva la luce quella canzone, l'Iran era presente su tutte le testate.

L’album risulta molto concentrato sia nel tempo che nella velocità in cui è nato. Questa intensità ha influito su gli arrangiamenti e sulla registrazione? E nel risultato finale che vi aspettavate?

Sì, ha influito decisamente. I brani sono tutti molto ripetitivi per quanto riguarda i suoni, o meglio direi che i suoni risultano coerenti. È un disco che ha quei tre-quattro suoni, quelle tre/quattro limitazioni tecniche che ci siamo dati e che usa quei colori per fare il dipinto. Come band crediamo che la creatività in realtà fiorisca tante volte proprio nella limitazione più che nell'infinito vagheggiamento. E quindi sì, il limite temporale di sbatti, di stare dietro alle nostre vite e il limite tecnico che abbiamo deciso di darci, usare più o meno sempre quegli ingredienti, quei suoni, si senta massicciamente nel disco e credo che sia anche uno dei suoi aspetti più interessanti in un'epoca dove con l'AI puoi fare qualsiasi tipo di canzone, in qualsiasi modo, con qualsiasi suono, in due minuti. Per noi era interessante invece far vedere che siamo limitati nelle nostre scelte, nelle nostre possibilità e non abbiamo l'infinito come orizzonte tra cui scegliere.

Mantenendo il focus sull'album, il suo titolo, la data della sua pubblicazione il giorno della liberazione, il tema della guerra e il periodo storico odierno. Come siete riusciti a far combaciare tutto? Mentre il disco nasceva e veniva fuori o era già un'idea?

Al punto zero, come sempre, c'era semplicemente un Dropbox di canzoni scritte lungo gli anni e che tutti più o meno pensavamo di poter destinare ai GIALLORENZO, visto che tutti abbiamo anche altri progetti musicali. La volontà di riprovarci, di rimettersi insieme dopo ormai tre anni che non arrangiavamo nulla. Al punto uno, una selezione un po' spontanea di questi brani, che ha privilegiato a più riprese i pezzi che avevano più questa dimensione anche un po' collettiva dentro. Al punto due c'è stato il rendersi conto che uno dei temi era questo e una volontà anche di farlo notare di più. Al punto tre, visto che era un periodo in cui ascoltavo un sacco di canti alpini, che non provengono da veri e propri album però Spotify deve catalogarli e vengono salvati in raccolte che si chiamano INNI E CANTI. Ho notato questa cosa, l’ho proposta anche un po' scherzosamente agli altri e ho visto che piaceva. Poi tutto il resto sono state più o meno coincidenze. Però quando devi scegliere se uscire il 25 aprile o la prima settimana di maggio e hai fatto un disco che è così, che rappresenta quel passaggio lì per la vostra vita e che più o meno nei testi a volte ha dei riferimenti a quegli aspetti lì, vale la pena cavalcarle queste cose. Io credo ancora molto nella serendipity, nel fatto che se ci sono delle cose che si allineano, vale la pena sottolinearlo, per quanto alla fine il 99% li procura il nostro cervello.

GIALLORENZO

Tutti i vostri dischi hanno questo filo che li accomuna, un approccio molto do it yourself che si lega ad un lavoro collettivo. Questo modo di lavorare vi ha portato risultati ed ha funzionato?

Sì, ci sono due aspetti di quello che dici. Uno è l'aspetto corale, l'altro è l'aspetto do it yourself. L'aspetto DIY è sempre stato più o meno coerente. C'è stato solo un disco che abbiamo fatto in studio interamente che si chiama SUPER SOFT RESET ed è il penultimo. Mentre invece l'aspetto corale è stato in costante crescita. Nell'album d'esordio ci sono tutte canzoni scritte da me e ha dentro molte demo mie, dove gli altri non ci sono. Il secondo album invece aveva già una canzone non mia ed erano tutti brani arrangiati insieme. Il terzo album invece aveva più brani degli altri componenti della band. Questo è il primo album, invece che ha almeno un brano a testa  e dove appunto anche i brani più scarnificati sono stati lavorati insieme. Quindi mentre una cosa è stata più o meno costante, l'altra è stata in crescita. Secondo me ci sono cose senza le quali non saremmo noi, in modo o nell'altro, anche dovessimo cambiare completamente il modo di lavorare su dell'eventuale musica in futuro, saremmo talmente testoni che comunque avrebbe un suono che ci riflette, che puzza, che è sporco come noi. La coralità invece è stata una conquista che è diventata identitaria sempre di più, ci sono stati dei momenti in cui ci siamo accorti di non essere più un progetto ma di essere a tutti gli effetti una band, degli individui che si sono messi insieme per creare una cosa collettiva. Alla fine in qualche modo ci ha portato da qualche parte, credo che si senta l’unicità di quello che facciamo e credo che il nostro pubblico lo riconosca in quanto siamo molto seguiti dal vivo ed è una cosa che ci sorprende sempre.

Ci sono stati invece momenti in cui non hanno funzionato?

Alcune volte, la coralità e il do it yourself, sono state un freno. Ci hanno impedito di avere, ad esempio, una dose di pubblicazione all’altezza della richiesta del mercato odierno e su una serie di scelte interne che in questo momento ti evito o impiegherei ore a raccontarne i dettagli. A volte ci siamo trovati a dover schiacciare il freno e non l’acceleratore (ride, ndr).

Hai parlato appunto di questa crescita che c'è stata nel collettivo e di come ne ha giovato anche la vostra musica nel corso del tempo. Però comunque la vostra cifra stilistica è rimasta abbastanza simile a quella di partenza, anche avendo introdotto nuove tematiche e nuove sonorità. Come siete riusciti ad arrivarci senza perdere quello che siete sempre stati?

Abbiamo arrangiato INNI E CANTI in un paese nella Val Trompia, nello specifico Sarezzo, che è il paese natale di Fabio e di Giovanni. Si dà il caso che in quel paese ci siano anche i genitori e il fratello di Giovanni che suonano la cornamusa e la fisarmonica. Quando ci siamo resi conto che l'immaginario stava andando in una direzione che sa di Alpini, di Ventennio, di Grande Guerra, a Fabio è venuta l'intuizione di dire "ma perché non andiamo a registrare il fratello e il padre di Giovanni?". Quindi un giorno ha preso, ha registratouna cornamusa e una fisarmonica, che poi stavano da Dio nell'introduzione e nella coda di un brano. Li abbiamo anche portati dal vivo a Milano quando abbiamo suonato due volte di fila all’ Arci Bellezza. Tra i due show c'è stato un intermezzo di Nico e Luca che hanno suonato qualche pezzo del loro repertorio con la cornamusa, che in realtà è un baghèt bergamasco, è stato un momento abbastanza magico. Quindi sì, il punto è un po' quello, prendere gli elementi che ci sono e unire i puntini quando vedi delle possibili coincidenze.

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Sempre per quanto riguarda le novità e le influenze esterne, com'è stato lavorare e collaborare con Jacopo Lietti nel suo cameo?

In realtà è stato spontaneissimo perché Jacopo, oltre a essere in realtà amico, posso dire più o meno di tutti, lavora nello stesso spazio dove lavora Fabio e dove abbiamo mixato il disco. C'è questo luogo a Milano che si chiama Calderón, dove Jacopo stampa magliette, come Familia Povera, e dove di giorno ci sono ragazzi, persone che fanno un coworking, per dirla brutta. E Fabio lavora lì, è proprio il suo spazio di lavoro, lui ha il computer, le casse; quindi, togliendo il disturbo agli altri inquilini, di sera ci trovavamo lì quando non c'erano gli altri e lavoravamo al disco. E tra una cosa e l'altra è stato anche molto spontaneo che Jacopo con cui abbiamo in realtà ottimi rapporti di stima e di gratitudine, un giorno si è buttato dentro a collaborare a questa lunga coda di Finalmente Orso, che è appunto il pezzo di Fabio; quindi, è stato proprio mega genuino: una sera dopo aver lavorato, semplicemente ha preso in mano il microfono e ha cominciato a urlare delle cose sul finale.

Non chiedermi il perché, probabilmente è una cosa mia, ma ora che mi hai citato quel brano mi ricorda molto gli Strokes, dico una cavolata?

Sì, all'inizio ha un piglio molto indie rock anni 2000, molto veloce, poi alla fine cambia completamente, prende un incedere un po' marcia, un po' festa di paese e appunto l'elemento emo diventa a quel punto Jacopo che strilla un basso basso di volume in lontananza.

Guardandovi indietro, MILANO POSTO DI MERDA è stato il disco che vi ha fatto conoscere al pubblico, come percepite ora l'impatto che ha avuto sulla vostra vita e su quello che ne è venuto?

Dobbiamo tanto a quell'album, in realtà ci ha dato molto di più di quello che ci aspettavamo, per noi era un gioco, era una cosa... all'inizio non avevamo ancora neanche ben capito che eravamo fino in fondo una band. Semplicemente è successo che ha bucato un momento in cui la musica iniziava ad essere sempre più standardizzata, ha bucato un po' quel tipo di aspettativa e ha colpito qualcuno, alcune persone ci sono affezionate molto. Quindi gli dobbiamo tanto, ci ha uniti parecchio, ci ha permesso di continuare a farlo. Adesso l'abbiamo anche stampato in vinile, in onore del suo quinto anniversario, e l'abbiamo portato in un piccolo tour che non abbiamo potuto finire perché poi è arrivato il Covid. L'abbiamo portato a Roma, Torino, in Toscana e a Milano. Abbiamo fatto un gigantesco evento all'aperto, gratis, è venuta un sacco di gente. Insomma gli abbiamo ridato un po' quello che ci ha dato a noi in questi anni.

Se quell'album per voi è stato l’alfa per ora INNI E CANTI è l’omega, con i suoi temi storici e ideologici non legati al presente ma al passato. Come siete riusciti a collegare presente e passato?

Il trick è stato che in realtà nelle canzoni c'è molto poco questa cosa, la si può sentire forse come eco in certi momenti o come possibile interpretazione di certi passaggi, ma diciamo che non è super centrale quel tipo di immaginario nelle canzoni. Quindi è molto più nell'estetica, nelle copertine che abbiamo scelto, nella fanzine che abbiamo fatto girare ai vari media e regalato ai concerti. Lì invece si è sfogata molto di più questa dimensione. Come del resto era stato anche con MILANO POSTO DI MERDA dove il racconto dei personaggi marginali di Milano è stato fatto soprattutto con questi mezzi che si direbbero paratestuali, cioè esterni all'opera in sé. Abbiamo usato tantissimo l'aeronautica militare di Milano in Piazza Novelli 1, che era lo spazio del signor Giallorenzo, cui abbiamo dedicato il nostro nome e a cui dobbiamo tutto il primo disco come personaggio che abbiamo cercato di resuscitare facendo quell'album. Abbiamo scoperto che aveva lavorato lì; quindi, quello spazio è diventato il collegamento tra la nostra storia personale e il tema della guerra, che tu per primo riconosci come centrale. Abbiamo fatto delle fotografie lì, abbiamo usato i bassorilievi che sono appesi sulla facciata e sono di epoca fascista. Abbiamo usato le statue che sono presenti lì dentro. Abbiamo preso accesso a tutta un comparto un po' monumentale della città che deve la sua storia al risorgimento del fascismo e l'abbiamo introdotto in un contesto in cui in realtà era fuori luogo. È un album punk rock fatto in casa, di un gruppo che ha parlato per anni di lotta alla gentrificazione e cose del genere. Quindi sì, diciamo che questo détournement più che nelle canzoni stesse è avvenuto nel materiale estetico.

 intervista
GIALLORENZO

In questo contrapporsi di tematiche molto politiche, rappresentate anche nell’estetica appunto, come vi posizionate?

In realtà siamo molto diversi. Siamo sfumati, non c'è nessuno con una posizione netta. Nel senso non vogliamo neanche fare la figura dei partigiani assoluti perché lo è il nostro progetto, lo è la nostra unità, lo è la nostra band. Sono tutte cose che hanno un valore che va evidentemente contro certe cose che stanno succedendo ora nel mondo, in Italia e al governo. Ma ecco, non vogliamo essere vessilli di nulla, non abbiamo appartenenze da difendere, anche perché sarebbe ingiusto nei confronti della diversità che già c'è tra noi quattro.

A questo punto, inevitabilmente, si aprirà un nuovo capitolo della vostra carriera. Quali obiettivi o aspirazioni vi siete prefissati?

Abbiamo aspirazioni diverse. Credo che tutti abbiamo desiderio di suonare insieme e di suonare quest'estate, far girare questo disco quanto più possibile. Mentre una mia aspirazione personale sarebbe fare dei concerti sempre più grandi. Io avrei desiderio di portare la cosa magica che succede quando suoniamo insieme e quando la gente viene in una dimensione sempre più coinvolgente, sempre più grande. Quindi boh, spero di fare ancora qualche data dopo l'estate e magari cominciare anche a suonare in posti sempre grandi. Non so esattamente gli altri cosa ti risponderebbero.