08 novembre 2022

La nostra Ologenesi folle: intervista ai Little Pieces of Marmelade

«Nell’aria si avvertiva un po’ questa strana sensazione, ma alla fine, quello al MAMAMIA di Senigallia è stato un concerto come un altro». Le parole di Frankie trasmettono quell’abitudine a rialzarsi che ha caratterizzato le Marche e i marchigiani negli ultimi anni. Quando raggiungo al telefono Francesco e Daniele, i Little Pieces of Marmelade, è passata qualche settimana dall’alluvione che ha colpito il nord della regione: «Noi eravamo qui a Filottrano dove fortunatamente - tolte le strade di campagna impraticabili perché coperte di fango - non ci sono stati danni. Però eravamo molto vicini ai luoghi della tragedia» racconta DD.

Anche la storia dei LPOM è fatta di resistenza. La loro avventura inizia molto prima di X Factor, in provincia, dove cominciano a fare casino con chitarra e batteria da piccoli e arrivano a suonare davanti a tremila persone al MIND Festival, in apertura a Willie Peyote. Poi il talent, la tv, il tour e lo scorso 21 ottobre il primo album Ologenesi. Nel loro viaggio c’è un nome ricorrente, quello di Alberto Ferrari dei Verdena che li ha voluti come opening per il Volevo magia Tour.

Voi siete molto legati ai Verdena. Alberto Ferrari è tornato in tv dopo anni proprio per accompagnarvi nella finale di X Factor. Ora invece toccherà a voi aprire il loro prossimo concerto del 13 novembre a Padova. Come la state vivendo?

Daniele: Cavolo, è un onore per noi. I Verdena sono sempre stati la nostra band italiana preferita. Anzi, definirlo un onore è quasi un insulto. Bellissimo. Non so ancora come ci prepareremo, ma siamo felici (ride n.d.r.). Poi tra un po’, quando scenderà l’euforia, vedremo la situazione con più razionalità e la metteremo a fuoco.

Parliamo dell’album. Quando e dove avete iniziato a lavorare a Ologenesi?

D: Abbiamo incominciato nell’inverno del 2021, a gennaio. Ci siamo fermati a scrivere ad aprile per preparare il tour estivo, poi abbiamo ripreso in autunno. Diciamo che per novembre/dicembre era bello che finito. Nel complesso ci abbiamo lavorato all’incirca per sette mesi.

F: Abbiamo iniziato a fissare delle idee, registrando dei provini, qui nello studio di Filottrano dove ci troviamo ora. Alla fine, i suoni erano molto buoni, personali, come li volevamo insomma. Manuel (Agnelli n.d.r.) è rimasto colpito da tante cose, per cui gran parte del materiale delle demo è rimasto così come era stato registrato ed è finito nel disco. Le uniche eccezioni sono state Canzone 11, Canzone 4 e Canzone 2 che le abbiamo fatte in studio da lui, così come le voci e alcune parti di batteria.

Il vostro rapporto con Manuel Agnelli è incominciato ad X Factor, come si è evoluto nel tempo? Com’è lavorare con lui?

D: Con Manuel ci siamo trovati bene da subito. Ricordo ancora quando ci ha proposto di produrci un disco, ecco quello ci rende orgogliosi. Il fatto che ce l’abbia chiesto lui, che si sia messo a nostra disposizione, ponendosi sul nostro stesso piano. Possiamo solo che ringraziarlo, per noi non è solo un produttore, ma prima di tutto un amico. Pensa che lui ha fermato i lavori sul suo disco solista (Ama il prossimo tuo come te stesso, n.d.r.) per produrre il nostro. È stato un gesto incredibile.

F: Ha cominciato a darci una mano a febbraio del 2021. Lui ascoltava i provini e iniziava a capire come impostare il lavoro. Tutti i giorni eravamo al telefono per le correzioni dei mix e dei master. È stato il terzo membro della band per due mesi. Ma la cosa più importante che ci ha insegnato è il saper prendere decisioni importanti in poco tempo. Va bene saper suonare, va bene saper scrivere, ma abbiamo capito che, quando vanno fatte delle scelte grosse all’ultimo, bisogna guardare le cose da una prospettiva diversa che non sia solo quella della gioia di suonare o della voglia di spaccare. Ci sono tante altre variabili.
A livello sonoro invece è stato un continuo scambio, c’è stata una contaminazione da entrambi i fronti.

Cosa vi ha insegnato X Factor e di cosa, invece, tornando indietro, fareste a meno?

F: Noi ci riteniamo fortunatissimi di aver potuto fare quel tipo di esperienza, perché in quel momento lì non sapevamo come promuovere il nostro disco, nessuna etichetta era interessata. Per cui quando ci è arrivata questa chiamata abbiamo detto: «Provamoce!». Comunque, cercavano inediti, una cosa più particolare. Non ci siamo mai sentiti costretti a fare niente che non fosse vicino al nostro mondo, anche per quanto riguarda i feat, come quello con Alberto Ferrari, abbiamo avuto completa libertà. L’unica cosa di cui avremmo fatto a meno, come tutti, è il Covid: noi abbiamo partecipato a un’edizione senza pubblico e usciti dalla trasmissione non abbiamo avuto modo di andare subito in tour.

D: Dopo che hai avuto un buonissimo riscontro dal pubblico a casa mentre eri in televisione, ti ritrovi che non puoi fare niente per un sacco di mesi. È stata una bella batosta.

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Torniamo ad Ologenesi. I titoli delle canzoni sono essenzialmente numeri, ma le tracce non sono in ordine. Come va ascoltato quindi? Seguendo i numeri o l’ordine che gli avete dato voi?

D: I numeri delle canzoni indicano l’ordine cronologico nel quale sono state scritte; perciò, volendo si potrebbe ascoltare anche partendo da Canzone 1 e procedendo via via fino alla 12. La setlist dei nostri concerti funziona proprio così.

F: Poi ragionando, Manuel ci ha proposto quest’altra scaletta che suonava più d’impatto.

Questa è la prima volta che vi siete cimentati con l’italiano. È stato più complicato?

D: Premetto che prima di pensare alla scrittura del testo, noi badiamo molto di più al suono. Io mi lascio ispirare da libri, film, serie, anche disegni. Guardarli talvolta mi ispira. È stato un bel percorso, preparare la musica e poi adattare i testi. Posso però dire con certezza che scrivere in italiano è stato più difficile. Inizialmente scrivi in continuazione, anche dieci testi diversi che poi butti via. Una cosa che dici in inglese magari in italiano suona male e allora devi trovare un altro modo, puntare all’assonanza. Anche quello è un esercizio, più scrivi, più possibilità hai poi di tirare fuori qualcosa che ti soddisfi. Con l’italiano ti spogli, sei tu. Quello che dici si sente bene e lo capiscono tutti.

A questo punto la domanda è d’obbligo. Ci sono film o libri in particolare a cui vi siete ispirati?

D: Mah, non saprei. Io amo molto andare al cinema, vedere film nuovi - l’ultimo che ho visto è stato Don’t Worry Darling - se dovessi dirti qualche titolo probabilmente sarebbe qualcosa di Nolan. Di serie che mi hanno ispirato invece ce ne sono una sfilza infinita, sicuramente Better Call Saul.

F: Io direi American Psycho. Assurdo e schizofrenico come il nostro sound.

Dai testi, mi viene in mente Canzone 7 o Canzone 11 quello che si percepisce è un’insofferenza continua nei confronti della società.

D: Nasce tutto dall’influenza del periodo storico che stiamo vivendo. Il fatto di mettersi a scrivere un disco nuovo, in italiano, rinchiusi in sala prove, perché tanto non si poteva fare nient’altro. Questa sorta di repressione si sente nei suoni e nei testi. È stato molto spontaneo.

 La pandemia vi ha tolto molto da un lato, ma dall’altro vi donato il tempo di lavorare al disco. Alla fine, come ne siete usciti? Migliori o peggiori?

F: Ne siamo usciti un po’ più riflessivi.

D: Sì, siamo stati costretti a chiuderci in noi stessi e a fare i conti con il nostro io ed è proprio questo che forse ci ha salvato in quel momento.

In questo disco si ritrova il suono che vi ha reso celebri e che per la prima volta è finito ad X Factor. Vorrei evitare la classica domanda sulle influenze, per questo la prendo alla larga: quali sono gli artisti che durante la scrittura del disco avete ascoltato di più?

F: Sicuramente i Death Grips, per il loro modo di cambiare piano sonoro istantaneamente, quasi dando l’impressione di sbagliare. I Melvins per i suoni.

D: Per l’italiano e la scrittura dei testi ho invece ascoltato molto Sick Tamburo, per la sua scrittura essenziale e rapida, e anche Fabri Fibra.

In Canzone 8, infatti esce la vostra vena hip hop, c’è quel ritornello disturbante e il ponte quasi sentimentale.

F: Questo pezzo è un delirio, è nato tutto in studio e infatti live ancora non lo suoniamo. Non c’è chitarra, è tutto basato su un bordone di tastiera distorta che oscilla. Una batteria larga e furiosa e la voce rap. Poi abbiamo mutato cose, inserito sample, è diventato un taglia e cuci. È un esperimento del tipo “qua facciamo quello che nessuno farebbe”. Un gran divertimento. È stato l’unico brano che è finito dalla preproduzione al master senza passare dal mix.

D: Il testo l’ho scritto insieme ad un nostro amico, Tommaso (Pettinari n.d.r.), ed è nato da uno sfogo dopo aver visto un concerto trap con vari artisti. Questo live mi aveva talmente schifato che ho voluto scrivere un dissing – almeno per una volta nella vita - diretto a tutti quei cantanti che fanno quattro pezzi in un’ora, sempre stonati, autotune in continuazione, 1,2,3 fate casino eccetera.

Sempre in Canzone 8 c’è questo verso «A sto suono ho dato tutto, adesso chi è che paga?» Secondo voi, un certo tipo di musica come la vostra, può riappropriarsi di un determinato spazio? Come può tornare ad essere rilevante, alla pari di altri generi che oggi la fanno da padrone?

F: Io non penso che sia un discorso che può partire dalle etichette discografiche, ma credo che debba partire dal pubblico. È vero che forse sta un po’ ritornando, ma sempre sui soliti nomi, c’è poco interesse sugli esordienti. Vent’anni fa c’erano realtà diverse, se pensi al Tora Tora del 2002 con gli Africa Unite. Per esempio, noi a Filottrano a 14 anni eravamo sul palco del festival antirazzista. C’erano delle micro-realtà, uno dal garage poteva sperare di arrivare almeno al piccolo festival di provincia. Uno dovrebbe convincere tutti nel live e da lì crearsi degli affezionati.

Una particolarità che, secondo me, vi rende unici nel panorama italiano è la componente soul, quasi black music, che riuscite a combinare alla distorsione. Mi viene in mente Canzone 10.

D: Sì, ascoltiamo quel tipo di musica da quando eravamo piccoli. A livello di soul il nostro ideale è quello dei Led Zeppelin.

F: Anche Band of Gypsys e Stevie Wonder.

Una delle tracce più sorprendenti è Canzone 3 con il synth, sembra di stare in un videogioco.

F: Quella è realizzata con la chitarra 8-bit, stile Super Mario. Avevamo questo riff al quale abbiamo aggiunto un delirio psichedelico nel mezzo. C’è stata tanta libertà, come in Canzone 8, non ci siamo preoccupati poi del live. Infatti, per trasportarla sul palco abbiamo faticato parecchio (ride n.d.r).

Daniele è vero che tu eri un insegnante di chitarra? Hai interrotto questa attività o lo fai ancora?

D: No, non più. Bisogna sdoganare questa cosa. Ho fatto l’insegnante solo per due mesi con i bambini, ma ho capito subito che non faceva per me. L’insegnamento è un talento al pari di altri, qualcosa che ho capito presto di non avere.

Frankie, i tuoi chitarristi di riferimento? Daniele i tuoi batteristi di riferimento?

F: Jimi Hendrix.

D: Buddy Miles dei Band of Gypsys, o comunque batteristi legati al funk. Per la voce invece John Lennon e Lane Stanley.

Il vostro disco si intitola Ologenesi e come indica il titolo rappresenta una vostra evoluzione più complessa. La vostra prima data dopo X Factor è stata al teatro Lauro Rossi di Macerata. Vi affascina l’idea di provare a fare un tour nei teatri, magari più acustico? Quale sarà il vostro prossimo stadio evolutivo?

F: Per il momento siamo contentissimi di suonare nei club, per il suono soprattutto. Abbiamo suonato nei teatri, ma in questo caso dovremmo creare qualcosa di completamente diverso.

D: Sì, stravolgendo i suoni, magari in veste più soul con un coro gospel. In futuro non si sa mai. Ma adesso ci teniamo stretti i club.

Ph. Francesca Tilio