29 ottobre 2018

Lo Stato Sociale: ieri, oggi, domani

Ho salutato l’estate del 2018 in un paesino sardo in compagnia del gruppo indie più chiacchierato del momento. Star nazional-popolari senza peli sulla lingua, vantano il secondo gradino più alto del podio sanremese grazie alla propria irriverenza, una qualità che ha catturato l’attenzione di grandi e piccini che ora con un poco di idolatria li vogliono e li cercano insistentemente per tutti gli anfratti del nostro Paese. Il loro nome altisonante trasmette salvezza, in realtà sono solo cinque “regaz” emiliani con la passione per la musica e per l’impegno politico. In questa opera buffa e confusa – qualcuno l’ha definita “del cambiamento” – che è l’Italia ci dilettano in un sorriso amaro: uno di loro sta cercando di seguire l’impresa di Icaro, qualcun altro cerca di fargli da zavorra per riportarlo alla realtà; c’è chi è bohémien ma attento alle catastrofi dei governi mondiali e chi ha partecipato con animo alle recenti elezioni amministrative della propria città: sono Albi, Bebo, Carota, Checco e Lodo, amiconi goliardici che dal 2009 formano il noto collettivo musicale bolognese chiamato Lo Stato Sociale. Al Terralba Extra Sound ho avuto modo di parlare con il bassista Alberto Cazzola; non è stata un’impresa difficile, se tralascio i minuti che ho dovuto aspettare per far decongestionare quel traffico umano pazzo per un selfie con “quelli della vecchia che balla”, e nell’attesa per una richiesta di una chiacchierata in un giorno più quieto, ho pensato ad una domanda: «quanto conosciamo di loro, a parte il pregiudizio da “comunisti venduti”?». Era la missione che faceva per me, e Albi è stato esaustivo e paziente nello sciogliere ogni mio dubbio e nel placare la mia curiosità che lo ha tenuto per venti minuti incollato al telefono.

Fotografia di Giuseppe Palmisano.

«Voi siete di Bologna, una città che in ambito musicale non è mai stata periferica. Qual è la sua unicità? C’è qualcos’altro, oltre alla musica, che fate per migliorarla?»

«Sin da prima della fondazione de Lo Stato Sociale, abbiamo sempre partecipato alle attività politiche e sociali più encomiabili di Bologna; da bravi cittadini, ci piace rompere le scatole quando il tempo lo richiede. Abbiamo fatto tante cose, da organizzare serate o manifestazioni a fare concerti, abbiamo cercato di portare avanti determinate istanze. Ci piace vivere la nostra città a pieno, Bologna è una città molto ben disposta ad accogliere la vita sociale».

«A chi vi conosce solo per sentito dire sfugge un particolare della vostra vita, ovvero i vostri impegni umanitari. Com’è andata la vostra esperienza nel Chiapas? State valutando un altro viaggio in un’altra zona sottosviluppata oppure state pensando di tornare in Messico per continuare a sostenere le comunità zapatiste?»

«È un percorso che ha affrontato Enrico , ma ha segnato anche noi, che siamo sempre aperti ad andare incontro a varie possibilità di esplorazione, di conoscenza e di supporto. Si è trattata di un’esperienza positiva, è stato prodotto un disco, hanno lavorato tanto, non solo in ambito musicale. Penso che la collaborazione continuerà, non appena riusciremo ad incastrare tutti i nostri impegni».

«Cosa pensano i vostri fan di questa avventura?»

«Bene! Speriamo che sia servita a sensibilizzare la gente sulla cultura zapatista, e che le attività di EZLN non siano passate inosservate».

«Nelle vostre canzoni l’ironia e la politica sono intrecciate saldamente. Ti faccio una domanda provocatoria: secondo te, chi scherza troppo oggi rischierà di non essere preso sul serio domani?»

«Beh, noi non ci prendiamo molto sul serio perché siamo fatti così! Sì, c’è quel rischio, in realtà attraverso la frivolezza di un atteggiamento si può arrivare a dire qualcosa di profondo, e magari così si può essere in grado di veicolare meglio un concetto. Questo è il nostro stile, sappiamo che è rischioso ma non vogliamo essere pesanti, vogliamo planare sopra le cose con leggerezza anche quando vogliamo parlare di cose difficili o complicate. Ovviamente, non ci piace essere superficiali ma leggibili alla maggior parte delle persone».

«Credi che la satira sia l’unica forma attraverso la quale oggi si può parlare di politica in Italia?»

«No, non penso che sia l’unica forma. Per me, fare satira significa contrastare la politica in termini non seri, tuttavia ciò non significa venir meno ai ragionamenti costruiti. È una forma culturale, dunque chi la fa è consapevole della realtà che lo circonda».

«Quando avete trattato di politica, vi hanno mai messo i bastoni fra le ruote?»

«Ce li hanno messi sempre! Molti ci dicono di pensare esclusivamente alla musica, queste critiche ci lasciano un po’ perplessi: la politica riguarda la società, essa è strettamente legata alla cultura, noi non vogliamo scinderle».

«Ma perché un gruppo indipendente con una storia alle spalle ha sentito il bisogno di portare un suo pezzo a Sanremo?»

«Semplicemente perché Sanremo è il festival della canzone italiana e noi facciamo canzoni in italiano. Volevamo rompere un altro tabù, e quando eravamo certi di andarci con un determinato contenuto siamo partiti con poca arrendevolezza: non saremo mai andati con altre canzoni, siamo andati con quella perché era giusta.»

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«L’ho notato anche io, non vi siete proposti con bassi fini, la vostra era una canzone ironica e priva di standard. Ho apprezzato molto la vostra presenza, ma nel mio piccolo ho notato un particolare, una leggera somiglianza tra Una vita in vacanza e Nuntereggae più di Rino Gaetano, cioè la denuncia sociale raccontata a mo’ di filastrocca.»

«Rino è stato un esempio in passato e lo sarà anche in futuro. Quel tipo di formula da te messo in questione è stato usato molte volte nella storia della musica, noi stessi l’avevamo già utilizzato. Non c’è stata una copiatura della melodia o dei versi; la formula è la stessa, ma è lecito farlo!»

«Secondo te, cosa è piaciuto di più al pubblico? Il vostro secondo posto è stato raggiunto grazie alla parte seria o grazie alla parte faceta del brano?»

«In quel contesto ha colpito molto la nostra eccentricità, dunque probabilmente la parte faceta. Abbiamo presentato un pezzo che si differenziava dagli altri brani per il ritmo e l’esibizione; Paddy Jones ha dato un “surplus” alla performance, rendendola memorabile: è arrivata anche a quelle persone che magari non potevano essere coinvolte dalla sola canzone, ovvero i più giovani e gli anziani. Il nostro secondo posto è stato un insieme di queste cose.»

A Sanremo. Fotografia di Claudio Onorati.

«Mi pare che voi vi ispiriate maggiormente ad Enzo Jannacci: secondo me, la tecnica vocalica di Lodo è più improntata verso il narrato, inoltre c’è una mestizia di fondo, tuttavia sono convinta che Carota abbia come modello Bologna. Questa mia riflessione non è altro che un’introduzione ad una domanda brevissima: quali sono i vostri miti?»

«Jannacci lo è sicuramente! Sin da piccoli, il cantautorato bolognese è stato il nostro punto di riferimento: Dalla, Guccini, Carboni e Cremonini ne sono un esempio, ma anche Rino Gaetano, che proviene da un’altra città, è uno dei nostri miti. Sono persone che non solo hanno fatto la storia della musica, ma anche segnato quella dello spettacolo: Jannacci, oltre ad essere un grande musicista, era un grande uomo di spettacolo, era un uomo molto provocatorio e intelligentissimo.»

«Avete mai pensato di fare teatro canzone come Gaber?»

«Ecco un altro che ci ha ispirato tantissimo. Nel 2013 abbiamo trasposto Turisti della democrazia in forma di teatro canzone: si trattava di un intreccio di monologhi e canzoni. Sento che presto faremo un lavoro simile con un disco futuro».

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«Avete collaborato con tantissimi artisti: oggi con chi vorreste fare un featuring

«A livello testuale, ci piacerebbe con Cesare Cremonini, mentre dal punto di vista della produzione musicale, con James Murphy degli LCD Soundsystem: è uno dei nostri idoli!»

«Ognuno di voi ha una personalità diversa, qual è il segreto della vostra coesione?»

«L’amicizia è il motivo per il quale riusciamo a superare gli scontri. L’affetto che ci lega da quando eravamo degli adolescenti è un nostro collante, con esso riusciamo a risolvere i nostri litigi costruttivi».

«La mia ultima domanda è abbastanza scontata: quale sarà il futuro dell’indie in Italia? Voi vi vedrete come protagonisti dell’indie oppure non vedete l’ora di fuggire da questo recinto?»

«Personalmente non penso che sia mai esistito un recinto, è una questione legata alla portata del singolo artista. Secondo me non dobbiamo parlare di musica “indie italiana”, ma di musica “underground”, perché non è ancora emersa, non ha ancora raggiunto larghe platee. In Italia non esiste il genere indie, ma l’underground e il mainstream. Da un punto di vista qualitativo e quantitativo, non c’è differenza tra i due termini, ci sono degli elementi propri dell’underground che non sono ancora giunti fra noi e ci sono particolarità mainstream che hanno catturato l’attenzione di tutti: ciò non toglie il duro e lungo lavoro che c’è stato prima che arrivassero al successo. Non ci sono limiti, si crede in quello che si fa, intanto si aspettano le risposte da parte del pubblico».

Fotografia di Giuseppe Palmisano.