23 agosto 2023

Sovvertire il concetto di genere musicale: intervista ai bdrmm

Il loro disco di debutto Bedroom (2020) li aveva scaraventati in un vortice di successo piuttosto inatteso, scatenato da appassionati di ogni epoca che avevano sentito nei loro brani accordi, suoni e sussurri che facevano da perfetto anello mancante tra lo shoegaze, il dream pop e il post-punk.  Ora, a quasi tre anni esatti da quello straordinario debutto, i bdrmm sono pronti per conquistare definitivamente il Regno Unito intero e attirare l'attenzione di tutta l'Europa.

Proprio grazie a brani come Momo, Gush o Happy erano stati rapidamente eletti come nuovi 'paladini dello shoegaze': la loro perfetta fusione di ritmiche post-punk, chitarre distorte shoegaze, testi personali e molto concisi sussurrati con una voce quasi eterea aveva infatti saputo rievocare le sensazioni tipiche di un déjà vu. Qualcosa di nuovo, non ancora catalogato, ma al tempo stesso molto familiare. Un giudizio pesante, che poteva condannare immediatamente la band a muoversi all'interno di un recinto ben stabilito di influenze e di sonorità, oltre che di apparenza, per non deludere subito la fanbase creatasi. Ed eccoli invece uscirsene con I Don't Know (qui trovate la nostra recensione), a mostrare un lato diverso della loro identità e a sovvertire la definizione di genere musicale.

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Ph. Katherine Mackenzie

E così li abbiamo incontrati al The Dorset Pub & Kitchen di Brighton per sapere il loro punto di vista sul tema dei generi musicali, sulle principali influenze del nuovo lavoro, per parlare degli Her's (e anche del nostro Ibisco). Il tutto davanti ad una pinta di Moretti (gli inglesi vanno matti per le birre italiane).

Allora ragazzi, ci troviamo qui per parlare innanzitutto del vostro nuovo disco I Don't Know. Come lo introdurreste in poche parole?

Ryan Smith:Wow, non è semplice farlo in poche parole. Jordan, pensaci tu.

Jordan Smith: Diciamo che sia nelle persone sia musicalmente di cose ne sono cambiate rispetto al primo album, abbiamo fatto diverse esperienze tutti noi. Abbiamo avuto modo di sviluppare i nostri suoni, così come c'è un nostro maggiore interesse verso l'elettronica e la musica elettronica ambient e sperimentale in generale. C'è stato un momento in cui non sapevamo nemmeno se saremmo usciti con un secondo album, poi abbiamo lavorato su noi stessi e abbiamo avuto modo di ritrovare un po' quella autostima che ti serve per portare a termine un disco. Penso che con questo lavoro abbiamo davvero trovato il modo in cui vogliamo esprimere la nostra musica.

Ryan: Ho e abbiamo avuto davvero tante influenze negli ultimi due anni e abbiamo avuto modo di sviluppare appieno la nostra musica attraverso l'elettronica. Nuovi suoni, textures e soundscapes che ci hanno portato a rendere la nostra musica più cinematica, oserei dire. Un suono meno noioso e un mondo musicale a tutto schermo, meglio della tv.

Per questo secondo disco siete passati alla Rock Action Records dei Mogwai proprio su loro personale invito diretto. Quanto ha influito sul vostro modo di lavorare avere dei mostri sacri come loro come guida?

Ryan: Beh diciamo che avere la possibilità di girare e suonare con loro è stato da subito fantastico e per tutti noi ogni giorno passato con i Mogwai è stato come un giorno di scuola. Dal modo di fare musica, fino ad ogni più semplice gesto che ti può venire in mente nella quotidianità di un artista: ogni momento di silenzio era in realtà davvero pieno di lezioni.

Joe Vickers: Parliamo di persone di un'umiltà pazzesca, quando si parla di fare musica non si scherza e rivedo in noi la stessa attitudine al lavoro e ambizione verso ciò che vogliamo raggiungere. La loro è stata la carriera dei sogni di tutte le band, una carriera organica, autentica e guidata dalla voglia di realizzare le proprie ambizioni e quelle del pubblico: sarebbe un sogno ripercorrere i loro passi, sia in termini di successi che di longevità e autenticità.

Ho sempre pensato che l'interlocutore medio di qualsiasi prodotto musicale/discografico abbia una tendenza spesso sbagliata nel volere affibbiare ad un brano, un disco o un artista un'etichetta dettata dal genere musicale in cui li si voglia inquadrare. Nel vostro caso penso sia difficile, oltre che riduttivo, incanalarvi in un genere specifico senza sbagliare.

Ryan: Personalmente capisco quello a cui fai riferimento e mi trovi d'accordo. Il nostro primo disco è chiaramente un disco shoegaze fatto da una band non-shoegaze. Siamo ispirati da davvero tanti generi musicali e penso sia difficile incanalarci in un singolo genere: non so se suoni male, ma penso sia difficile trovarci un posto nel panorama musicale. In fin dei conti penso che riuscirei a collocarci unicamente nella scena indie.

Joe: Già, ma ad oggi, per esempio, non saprei chi potrebbe essere definito con l'appellativo di band indie, nella sua accezione originale di produzione indipendente di musica. L'esempio più recente completamente contrario a questo concetto che mi viene in mente è quello dei Kings of Leon, che hanno 'plastificato' la musica indie rendendola troppo commerciale e hanno cambiato direzione al concetto stesso di indie. Personalmente preferirei che il nostro nome rimanesse legato all'indie vecchia scuola. Siamo contenti di fare parte della scena indie e penso che se dovessi scegliere un genere per noi direi proprio questo, ma ci piace l'idea di poter fare di testa nostra e mettere dentro i nostri brani tutti i suoni che vogliamo.

Jordan: Non ho mai capito la logica con cui si etichetta un artista con uno specifico genere, dovrebbe essere piuttosto che si tenti di riconoscere lo spettro di influenze e sonorità che hanno definito quell'artista. Personalmente non voglio nessun vincolo di genere musicale e voglio sentirmi libero di creare e pubblicare tutta la musica che voglio.

Quanto ha influito sul vostro lavoro il cambio di formazione?

Ryan: Tutto è andato peggiorando! (ride, ndr) A parte le battute, ci conoscevamo da tantissimo tempo e abbiamo condiviso migliaia di esperienze e avventure insieme quindi introdurlo nella band è stato naturale, una volta che si è manifestata la necessità di avere un nuovo batterista.

Joe: Parliamo di un batterista davvero bravo per quella che è la mia capacità di giudicare musicisti. Niente da dire su chi ha suonato con noi prima di lui, ma Conor (il nuovo batterista, ndr) va davvero forte. Viene da una scuola diversa in un certo senso, ha portato con sé un'ulteriore nuova ventata di influenze e di stile grazie alla sua passione per le ritmiche e per il jazz. Inoltre è quello che ha sempre voglia di scherzare e pronto a sdrammatizzare: davvero un grande collante per il nostro gruppo, per questo stiamo così bene insieme e passiamo tantissimo tempo insieme.

Per I Don't Know avete scelto la continuità per quanto riguarda la produzione, affidandovi ancora ad Alex Greaves, mentre avete optato per un cambio in sede di registrazione dove siete stati seguiti da Frank Arkwright, mastering engineer degli Abbey Road Studios (che ha lavorato con band del calibro di Joy Division, New Order, The Smiths, Johnny Marr, Morrissey, Blur e tanti altri).

Ryan: In realtà... non sono sicuro di essere così ferrato in materia di masterizzazione (ride, ndr).

Joe: Ovviamente ci sono buoni masterizzatori e altri meno buoni. In passato abbiamo registrato delle canzoni e dopo averle mandate in masterizzazione ci siamo resi conto che tornavano indietro senza un'anima. Il modo in cui l'ingegnere del suono lavora sulle registrazioni in questo senso è determinante.

Jordan: Esatto, direi che l'unico vero motivo per cui siamo passati ad un diverso sound engineer deriva dal fatto che quando gli abbiamo mandato i nostri brani quelli che poi abbiamo riascoltato ci sono piaciuti letteralmente al primo ascolto. Secondariamente, in tutta onestà, la scelta è stata dettata dal fatto che la nostra prima scelta Heba Kadry, con cui ci siano trovati divinamente durante le registrazioni del nostro primo disco, era troppo occupata nel momento in cui noi procedevamo spediti e abbiamo cambiato.

Avete sottolineato in alcune vostre precedenti interviste quanto può essere importante per un artista seguire il proprio istinto senza accettare compromessi con le case discografiche. Al giorno d'oggi è sempre più difficile proseguire su questa strada.

Ryan: Per risponderti in maniera diretta ti dico che abbiamo rifiutato offerte di alcune case discografiche perché volevamo essere sicuri di proseguire sulla nostra strada. La decisione di percorrere la strada delle vendite per me è disgustosa, essere 'indipendenti' significa anche avere libertà di scelta sulla musica e su ciò che si vuole pubblicare. Vendersi ad un'etichetta significa perdere di vista il motivo per cui hai iniziato a fare musica: non ci importano queste dinamiche, vogliamo continuare ad essere chi siamo e fare la musica che sentiamo di volere fare.

Joe: C'è pieno di band che decidono di firmare per case discografiche che poi finiscono per indirizzare la loro creazione musicale. Fare musica per noi significa esprimere noi stessi e quindi non avrebbe senso limitarci con le nostre stesse mani.

Sempre in tema di differenze tra il nuovo ed il primo disco, ho notato che in Bedroom i testi sembravano molto personali, 'io' era il pronome più usato, mentre in I Don't Know i testi sembrano sì personali ma più facilmente plasmabili all'esperienza dell'ascoltatore. Quasi impersonali, anche grammaticalmente. Immagino sia voluto.

Ryan: Assolutamente è così, è una contromisura che ho dovuto prendere per proteggere me stesso. Non si può essere troppo sinceri: è meglio mantenere un certo grado di ambiguità per lasciare le cose poco chiare. Se dicessi le cose dritte così come le provo o le sento sarebbe troppo per tutti, l'ambiguità serve per rendere le cose più soggettive e interpretabili da parte di chi ci ascolta. Prendere le distanze è stato quasi un obbligo nei miei confronti di cui possono beneficiare tutti gli ascoltatori.

Separare il proprio trascorso e la propria vita personale dalla musica è possibile?

Ryan: Beh attualmente non penso di avere una vita privata o personale: la musica è la mia vita e non è possibile scinderle. I ragazzi della band sono la mia vita privata e la mia famiglia.

Joe: Penso che sia normale che in una vita come la nostra i compagni di viaggio della band diventino più che semplici persone con cui condividere un lavoro, di conseguenza musica e vita non possono più essere divise.

Conor Murray: Legarsi a qualsiasi cosa al di fuori della band diventa naturalmente molto complicato perché si finisce per condividere con il gruppo tutta la vita.

Ryan: Joe ad esempio ha dovuto rinunciare alla sua carriera da giocatore di golf per noi e per la musica! (risate, ndr)

Jordan, so che sei l'artista che ha realizzato la copertina del disco. Quanto ci hai messo e cosa ti ha ispirato?

Jordan: La copertina di Bedroom penso di averla realizzata in circa 5 minuti, anche perché sono partito da una foto di un sacchetto di patatine (risata generale, ndr). Per questo lavoro non avevo davvero idea da dove partire, ho dovuto costruire uno stile e cercare di metterlo giù. Anche perché il disco stesso era musicalmente diverso per cui avevo bisogno di una svolta anche stilistica. Sapevo solo che non la volevo in bianco e nero e che non sarebbe stata realizzata solamente al computer: così ho preso dei pennelli e mentre ascoltavo la nostra musica lasciavo andare quello che veniva naturalmente. Ho iniziato a lavorarci in una settimana in cui ci siamo dedicati alla registrazione della parte di batteria, era estate e dopo una lunga pausa di quattro mesi e mezzo mi ci sono rimesso sotto.

Ryan: Mi piace come si possono apprezzare le diverse textures. Un richiamo al contenuto musicale veramente centrato.

Abbiamo parlato tanto di influenze e quindi non posso che farvi la domanda più classica e al tempo stesso difficile su questo tema per inquadrare ancor meglio ciò che alimenta la vostra creatività. Qual è il vostro disco preferito e/o quello che vi ha cambiato la vita?

Ryan: Il più importante è stato sicuramente In Rainbows dei Radiohead: la prima volta che l'ho sentito ricordo che non riuscivo più a smettere di ascoltarlo. È senza dubbio il disco che più di tutti mi ha ispirato. Penso sia stata la prima volta in cui ho davvero ascoltato della musica e ricordo di aver detto che volevo fare qualcosa di simile anche io.

Joe: Penso che quello che mi abbia colpito più di tutti è senza dubbio il primo disco (Psychocandy, ndr) dei Jesus And The Mary Chain: questo effetto feedback costante registrato per tutta la durata dell'album. Ricordo che la prima volta che lo ascoltai pensai che il lettore fosse rotto o che il disco fosse da restituire e adesso se ci ripenso mi sento solo stupido. Mi rapì completamente, non avevo mai sentito nulla di simile.

Jordan: Non posso che rispondere con In Rainbows, alla fine dei conti io e Ryan siamo cresciuti insieme ed eravamo nella stessa casa e nella stessa macchina (ride, ndr).

Conor: Davvero complicato sceglierne uno così su due piedi: dico The North Borders di Bonobo, davvero notevole, per le atmosfere, l'elettronica e le ritmiche.

A proposito di influenze, non posso non citare una band che mi sta particolarmente a cuore e a cui non ho potuto non pensare ascoltando il vostro brano Gush: gli Her's. So che avete suonato con loro, che rapporto avevate?

Ryan: Posso assolutamente affermare che in un certo senso sono stati in quegli anni un'ispirazione, i loro suoni erano fantastici. Sarebbe stato davvero bello continuare a poter suonare con loro, per me erano una di quelle band vere e molto attuali per il futuro che vedo nella musica. La loro morte è stata una vera tragedia. Non penso siano stati un'influenza diretta su Gush, ma sicuramente la musica che ci ha guidati a scrivere la nostra di musica è più o meno stata la stessa e abbiamo avuto modo di ricreare le stesse atmosfere. Sono davvero stato colpito da questa storia, mi ha reso molto triste.

Jordan: Ricordo che ero ad un festival quando un amico mi scrisse per comunicarmi la tragica notizia. Un vero schifo, erano ragazzi giovani che lasciavano trasparire tutta la gioia per quello che facevano. Cose così non dovrebbero mai accadere.

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Un altro aspetto che mi ha sempre incuriosito è la distribuzione delle diverse band inglesi, geograficamente parlando. Le zone di Manchester, Liverpool e Londra ad esempio non hanno ovviamente bisogno di commenti particolari: pensate che le vostre radici a Hull e Leeds abbiano un effetto su voi come musicisti?

Ryan: Penso che l'influenza sia più che altro su di noi come persone e di conseguenza sulla nostra musica. Hull non è un posto in cui esattamente la gente desidera andare e quindi per emergere devi lavorare più duro degli altri. C'è un posto a cui siamo molto legati poi che è Adelphi, in cui abbiamo suonato tantissimo e fatto molta pratica, persone vere che ci hanno supportato e con cui abbiamo un rapporto. Il suo bello è che è un posto che conoscono in pochi e quindi continua a mantenere quella atmosfera autentica.

Conor: Non si può parlare di un vero stile come Manchester, ma di influenze e di atmosfera, più che altro. Confermo che Adelphi è uno di quei posti che ci hanno forgiato e che ha una sua aura mistica.

Joe: Nella zona di Hull ci sono letteralmente tre posti in cui solitamente gli artisti possono esibirsi per cui non ci sono mai state limitazioni di genere e abbiamo sempre potuto esprimerci per quello che eravamo. Sono orgoglioso di venire da una realtà come Hull.

Jordan: C'è uno zoo in cui ci sono i pinguini più tristi del mondo! Non hanno il ghiaccio, non hanno un vero habitat e quindi sono davvero tristi e sono tipo 'cosa cazzo ci facciamo qui a Hull?".

Ryan: Ed eccoci qui che parliamo di pinguini.

Ragazzi per concludere parliamo di concerti. A breve tornerete in Italia: prima a Sestri Levante il 23 agosto e poi due date tra Milano e Bologna ad inizio novembre. Avete qualche ricordo che vi lega all'Italia?

Conor: Se non sbaglio una volta ci siamo persi a Milano. (risate, ndr).

Ryan: No, era Roma! Eravamo in monopattino elettrico, c'è stata un po' di discussione sulla direzione da prendere e ad un tratto ci siamo ritrovati persi, con le batterie scariche e nei pressi di una statale o un'autostrada. Le macchine non ci sopportavano e ci suonavano di continuo.

Jordan: In realtà ci siamo anche avvicinati ad un nostro fan di nome Enzo, un genio, amico dei Mogwai che ci ha riempiti di domande ed è stato con noi per tanto tempo mentre siamo stati in Italia. Viveva dalle nostre parti, tra le altre cose.

Joe: Uno dei ricordi più indelebili che ho è a Milano, in una zona in cui tutti erano tiratissimi e vestiti davvero benissimo e poi c'ero io vestito così, insomma, come il membro di una rock band e ci siamo messi a mangiare in un McDonald's davanti a tutte queste persone bellissime. Ci sentivamo un tantino fuori luogo, ecco, ma chi se ne frega.

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Ph. Katherine Mackenzie

I bdrmm saranno in Italia per tre date complessive e qui potete trovare i biglietti per tutti i concerti in programma: