02 dicembre 2021

Strappati lungo i bordi: intervista a Giancane

A volte capita che un film o una serie tv rimangano incastrati nei tuoi pensieri per giorni dopo averli visti. Ti torna in mente una scena, ti ritrovi a trattenere il fiato senza un motivo valido e un cumulo mnemonico di sensazioni si interseca con il tuo stato d'animo reale. In alcuni casi l’elemento più longevo, l’unico referente nella tua testa di ciò che hai visto, può essere proprio il più effimero: la colonna sonora. Succede con la sigla che riascolti all’inizio di ogni episodio o con quella canzone che proprio non ti saresti mai aspettato e che non ascoltavi da tempo, oppure con quella che corri a prendere il telefono prima che finisca per rintracciarla con una delle tante applicazioni o, ancora, con una musica mai sentita prima d’ora. Ecco allora che in quella scena il sottofondo sembra scavarti dentro e scopri te stesso in qualcos’altro.

La serie Strappare lungo i bordi, uscita lo scorso 17 novembre su Netflix, colpisce lo spettatore e lo disarciona emotivamente non solo attraverso la trama e i personaggi, ma anche per mezzo della musica. Il punk malinconico di Giancane fluisce dalla sigla e si riversa in varie forme in tutte le tracce della colonna sonora, raccolta nell’album Strappati lungo i bordi, e rispecchia alla perfezione gli intenti della storia scritta da Zerocalcare. Giancarlo, per chi non lo sapesse, è un cantautore romano, ex membro della band Muro del Canto, e autore solista di due dischi travolgenti e personali, Una vita al top (2016) e Ansia e disagio (2017). Intervistarlo è stato come chiacchierare con un amico di lunga data che condivide i tuoi pensieri e “sente” al tuo stesso modo. Ci becchiamo per telefono quando lui è appena tornato da Milano ed esordisce con la stessa ironia che permea dai suoi pezzi: «Sono un po’ stanchino e piove. Per tornare a casa ci ho messo lo stesso tempo che ho impiegato in treno da Milano a Roma, quando piove qua è un incubo». Sì, è come ho sempre creduto: Giancane non canta e scrive di sé, ma canta e scrive se stesso.

 

Partiamo da Strappare lungo i bordi. La serie sta avendo un grandissimo successo, come lo stai vivendo? Te l’aspettavi?

Bene, fortunatamente. È stata una bella cosa, mi è piaciuto un sacco lavorare alla serie e collaborare con Michele (Zerocalcare). Me l’aspettavo? Sinceramente non mi ero fatto un’idea essendo talmente invischiato all’interno. Calcola che per intero l’ho vista su Netflix come tutti, ho avuto modo ovviamente di leggere tutta quanta la storia in anticipo ma non l’ho potuta vedere prima che uscisse. Per scaramanzia mi dicevo che sarebbe stata un flop, però già dagli schizzi, dentro di me, mi rendevo conto che avrebbe funzionato.

Quando hai saputo che avresti dovuto curare la colonna sonora della serie? Come hai reagito alla notizia?

Proprio ieri, parlando con Michele, gli chiedevo: «Ma te lo ricordi quando me l’hai chiesto?» e nemmeno lui lo sapeva. [ride]. All’inizio avrei dovuto occuparmi solo della sigla e subito mi è venuto in mente un pezzo che avevo già scritto per metà che ricalcava, seppur in ambiti diversi, le tematiche della serie. Successivamente è venuta fuori la necessità di musicare determinate scene e quindi la colonna sonora è nata in corsa.

In passato hai spesso sottolineato come tu sia legato alla chitarra, la maggior parte delle tue canzoni le hai scritte partendo da lì. Nella colonna sonora però c’è di tutto, anche pezzi totalmente suonati al pianoforte. Come hai approcciato questo lavoro inedito?

Lavorare alla colonna sonora è stato molto figo, non l’avevo mai fatto prima d’ora. I pezzi al piano li ho scritti, così a caso, durante il lockdown, in un momento non molto felice. Diciamo che quando sono triste suono il pianoforte, quando sono arrabbiato prendo la chitarra per sfogarmi. In fase di registrazione i pezzi al piano poi li ho lasciati a Valerio Smordoni che ha le mani giuste per premere i tasti, io non sono un pianista. La parte più esaltante è stata però lavorare alle variazioni sul tema di Strappati lungo i bordi che a tutti gli effetti costituisce le prime quattro tracce della colonna sonora. Vedere un pezzo, nato in un certo modo, trasformarsi nel mood e negli strumenti in funzione della scena, mi ha dato una grandissima soddisfazione ed è stato molto divertente sperimentare e lavorare in un modo differente dal solito.

Lo stile della colonna sonora, soprattutto quello della sigla e del pezzo strumentale Non dormo ancora, ricalca molto quello emo punk di Ansia e disagio. A cosa ti sei ispirato e quali sono stati i tuoi ascolti durante la composizione? Hai ascoltato anche altre colonne sonore?

Questa cosa non l’ho mai detta credo, ma Non dormo ancora l’ho arrangiata, soprattutto nella parte più soft, sfruttando il giro di accordi di un altro mio brano del 2019, Non dormo più, che mi sembrava perfetto per quella scena. Gli arpeggi delle due chitarre che si incastrano lo mascherano un bel po’. Il processo di scrittura è stato molto naturale, così come i miei ascolti di quel periodo. Ad esempio, mentre stavamo lavorando alla sigla e a tutto il resto, mi stavo rivedendo casualmente Twin Peaks di cui sono un grandissimo fan. Credo che la colonna sonora di quella serie sia una delle più belle mai realizzate, non tanto musicalmente quanto cinematograficamente: ogni momento, sia di tensione o più leggero, è musicato alla perfezione e le note preparano lo spettatore emotivamente. Ecco, io e Michele abbiamo cercato per quanto possibile di attenerci a quel tipo di produzione, ovviamente non arrivando agli stessi risultati di Badalamenti. C’era un pezzo in particolare, sai quando si danno quei nomi stupidi ai file dei brani ancora da perfezionare, che avevo chiamato "Badalaminds".

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Com’è stato lavorare per Netflix? Hai notato qualche differenza rispetto al mondo discografico al quale sei abituato?

Le differenze le ho notate a livello di scrittura e di approccio, con Netflix non ho lavorato direttamente. Era la prima volta che mi cimentavo con una colonna sonora e devo dire che non mi è mai pesato. In passato erano stati utilizzati dei miei pezzi per dei film o dei programmi, ma non avevo mai scritto nulla appositamente. Mi sono divertito molto.

La serie tocca temi molto delicati, l’ansia sociale, la crescita, il disagio e altri che non posso citare nello specifico perché rischierei di fare spoiler. La salute mentale in Italia è spesso stata trattata con sufficienza. Credi che negli ultimi tempi si stia incominciando a darle più importanza o c’è ancora molta strada da percorrere?

Dato il momento che stiamo vivendo penso che abbiamo un bel po’ di chilometri ancora da fare. Finita la crisi sanitaria ci sarà una crisi psicologica folle che ha già cominciato a portare i suoi frutti. Non credo che la salute mentale sia una cosa molto considerata in Italia al momento, non vedo particolari mobilitazioni. La mia generazione è già abbastanza turbata, ma penso soprattutto a quelle che verranno, ai ragazzi di adesso che stanno vivendo la loro adolescenza in questo modo: per loro sarà un trauma da affrontare come si deve.

«Ma adesso che è cambiato tutto, cambi tu e la tua città» canti nella sigla. Spesso ci si affeziona a determinati luoghi di una città o di un paese perché lì si è vissuto un evento o un’emozione forte, come succede con le canzoni. Tuttavia, quello stesso sentire può modificarsi per varie cause e quando ciò avviene quel luogo di memoria cambia significato. Come è cambiato il tuo rapporto con Roma nel tempo?  Hai ancora qualche posto che ti fa tornare adolescente?

Sì, ho ancora dei luoghi a cui sono affezionato, il problema reale è che stanno scomparendo sempre di più. Per un verso è anche normale, più si va avanti più si cambia. Il punto è che, per come la vedo io, Roma sta cambiando un po’ in peggio e la situazione è dura soprattutto per i luoghi di cultura, specialmente dopo la pandemia. Proprio oggi leggevo di un posto a cui sono molto affezionato che è Cinema Palazzo: è stato sgombrato tempo fa e murato. Nessuno, scusami la parola, se l’è più “cagato”. Se pensi che io ci ho registrato il disco live Unplugged in San Lorenzo (2020), puoi comprendere quanto sia stato doloroso per me vederlo chiudere.

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Parliamo della tua amicizia con Michele. La vostra prima collaborazione è stata nel videoclip animato di Ipocondria che poi è divenuta anche la sigla dei corti Rebibbia Quarantine. Vi siete conosciuti in quell’occasione?

No, con Michele ci conoscevamo già da prima, ci siamo visti in altre circostanze, frequentando gli stessi posti. Ipocondria è stata la prima collaborazione “ufficiale”, avevo scritto il pezzo e conoscendolo, neanche lui se la passa bene con l’ipocondria, gli ho chiesto: «Te l’accolleresti?» e lui ha accettato subito in maniera entusiasta. In quel periodo si rispecchiava molto nel testo dato che stava presentando uno dei suoi libri e passava gran parte del tempo in hotel. Poi c’era anche Rancore e pure lui non è proprio “normale” [ride]. Scusa Tarek, ti voglio bene! Tra l’altro la prima volta che siamo visti tutti e tre insieme è stato proprio a Cinema Palazzo.

Ipocondria è stato in qualche modo un brano profetico ed è diventato per molti, compreso il sottoscritto, una delle tante colonne sonore della quarantena. Come hai passato il lockdown e questo ultimo anno e mezzo (quasi due) senza live?

Il lockdown non l’ho passato benissimo perché avevo il cervello staccato, mi ero appena fermato con i live e volevo prendermi un po’ di tempo per scrivere il nuovo disco. Ma un conto è prenderselo, un altro è che ti obbligano a prenderlo. Ho provato a scrivere cose senza successo ma io prendo spunto molto dalla vita reale e in quel momento consisteva in divano, televisione e la morte intorno. I principali pezzi della colonna sonora sono nati lì. A livello finanziario non è stato semplice anche se fortunatamente sono riuscito ad ottenere gli aiuti, alcuni membri della mia band non sono rientrati per una manciata di ore.

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Quale è stata la sensazione che hai provato nel tornare a suonare in concerto lo scorso 13 novembre al parco Schuster a Roma?

Durante i primi quattro pezzi mi veniva da piangere, avevo un nodo alla gola e faticavo a cantare. Anche le persone erano timide all’inizio, si trovavano ad assistere a qualcosa che non succedeva da più di due anni e in più stavano sedute. Dal quinto pezzo in poi si è “stappato tutto” anche se è mancata completamente la componente fisica che per il genere che suoniamo è parte integrante e fondamentale. La nostra non è proprio musica d’ascolto e il contatto fisico vale il cinquanta per cento. Nonostante tutto, ad oggi, lo considero uno dei migliori concerti che abbia mai fatto e tra i più emozionanti dato che si è svolto nel mio quartiere, nel parco in cui sono cresciuto e a cui sono affezionatissimo. Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che, da quest’estate, si sono accollati l’impresa di organizzare un concerto, in questo periodo credo sia una delle cose più difficili da fare.

L’altro giorno stavo rivedendo proprio il video di Ipocondria e mi ha colpito un commento che diceva: “Giancane, Rancore e Zerocalcare, la trinità della romanità”. Negli ultimi giorni è nata una polemica, ingiustificata dal mio punto di vista, sul fatto che la serie fosse recitata in romanesco. Io credo che uno scrittore, uno sceneggiatore, un cantautore o in definitiva qualsiasi tipo di artista, abbia il diritto e il dovere di esprimersi e dare vita al proprio mondo come meglio crede. Come la pensi al riguardo?

Preferisco non parlarne. Non ha proprio senso, fino a qualche settimana fa abbiamo visto Squid Game in coreano, ormai dovremmo essere abituati a guardare film e serie in lingua originale. Poi comunque è tutto abbastanza comprensibile, non è proprio in dialetto, c’è una cadenza. Semmai è Michele che parla veloce ma lui è così. [ride] In fin dei conti la serie rispecchia lo stile dei suoi fumetti, quindi, non capisco dove sia il problema. Da un lato però mi conforta questa cosa, se l’unica critica è questa vuol dire che è piaciuta.

Adesso arriva la domanda più fastidiosa, quella che fa aumentare il livello di preoccupazione di chi è già molto apprensivo di suo. Zerocalcare ha in uscita un nuovo libro, Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia, Rancore sta lavorando al nuovo album, Giancane invece? Quando arriva il terzo album?

Il disco dovrebbe arrivare a breve, ci sto lavorando da un pezzo. Sto tergiversando un po’ per il problema del "come suonare", perché senza la possibilità di fare concerti non lo farò uscire, non ha senso. Per questo sono in attesa di capire come si evolverà la situazione, la performance live è strettamente legata al mio essere, così come il rapporto umano con i fan, come il semplice banchetto a fine concerto. Ho necessità che il disco venga suonato, altrimenti mi sembrerebbe di aver buttato tempo.