19 giugno 2023

Trovare casa in ogni dove per essere veri cittadini del mondo: intervista a Santachiara

Luigi Picone, aka Santachiara, nasce ad Alberobello e passa la sua infanzia kerouachiana “on the road” al seguito dei suoi genitori, artisti di strada. Questo è stato uno dei primissimi argomenti che abbiamo affrontato in una piacevole chiacchierata. Abbiamo parlato di cosa significhi essere e sentirsi "a casa". Di chi ha passato la sua adolescenza in Umbria, poi a Napoli nel quartiere Santa Chiara (da qui il nome d'arte che lo accompagna tutt'oggi).
L'esordio con sette pezzi nel 2020 lo ha lanciato nell'universo musicale e l'ulteriore conferma è il nuovo album quest'anno,  decisamente molto più consapevole, con un titolo-parlante: la strada più breve per tornare a casa. Un inno, una rivendicazione delle sue origini, molteplici, in continuo mutamento, ma con radici in ogni dove. Questo è il vero punto di forza di un artista come Santachiara, che caratterizza, per osmosi, anche la sua musica e le sue sonorità: dal grunge, al rap, al pop, toccando anche vette cantautoriali.

(c) Davide Luigi Di Lorenzo

Sei uno studente di psicologia. Quanto è importante il tuo percorso di studi universitario nella tua musica?

È più una forma mentis. Per me e per la mia musica è fondamentale scavare. Parlo di introspezione e senza lo studio della psicologia non sarei riuscito a tirar fuori questi argomenti.

Tra sette pezzi e la strada più breve per tornare a casa passano 3 anni: ti senti più maturo?

Beh, di gran lunga. Il primo disco era molto più estroverso, in cui lavoravo con un mio amico dell’università.

In effetti ho letto di strumenti accatastati in casa uno sopra l’altro per poter registrare.

Sì, incredibile. I suoi genitori avevano questo studio ricavato in una stanza in cui avevamo le sedie l'una sopra l’altra: il microfono era sopra il tavolo, così era dell’altezza giusta. Una follia! Però si sente che è venuta fuori una roba comunque bella. Oggi invece lavoro con grandi professionisti e anche io ho studiato e mi sono concentrato di più.

Hai preso quindi lezioni in modo professionale?

Allora, ho fatto un po’ di chitarra (che comunque già sapevo suonare) e ho una vocal coach con stile europeo (ossia che mi aiuta a padroneggiare di più l’espressività della voce). Lavoriamo sul graffio, l’emozionalità, l’intimità. Ho imparato veramente così a fare musica, prima ci giocavo. Quando ho capito cosa volevo fare nella mia vita, allora è venuto tutto di conseguenza. Quest’ultimo disco è soltanto una parte minuscola di quanto ho realmente scritto.

Avevi tante altre demo insomma.

Sì, credo di aver pubblicato soltanto un terzo di tutto ciò che ho immaginato. Non ho messo dentro in questo disco tutto ciò che avevo, ma soltanto quelle 12 tracce che per me erano giuste ai fini del racconto che volevo dare all’album. 

Ti piace molto inserire intro/outro negli album: può dirsi concept in questo caso? Almeno dal punto di vista narrativo.

Per me è esattamente così. È fondamentale che un disco abbia una direzione e una narrazione. Già quando sento, in un mondo digitale, che hanno ascoltato il mio disco dall’inizio alla fine mi vengono le lacrime agli occhi. Comunque sì, l’ordine stesso delle tracce influisce. In questo disco l’intro è una “canzone”, perfetta per iniziare un viaggio in termini di mood e sound. L’outro invece è una dedica a chi ci è arrivato alla fine, è una chicca. Dico “siamo la resistenza io e te”, mentre il mondo muta in continuazione. Il “te” è il fruitore della fine, io lo dedico alle persone simili a me, che a volte si sentono sole e innamorate del romanticismo. 

Allora ti faccio una provocazione: come ci arrivo in maniera "facile" alla fine di un album se in Frammenti mi hai messo un outro di 11 minuti?

(ride, ndr) L’outro non era un pezzo, era più un racconto finale, capito? Una collezione di tutte le mie ispirazioni, un mashup generale di tutte le mie passioni. In questo ultimo disco invece l'outro dura due minuti su trentasei totali di album e questo mi lascia più la speranza che il fruitore medio ce la faccia a sentirselo tutto!

Parliamo di esperienze di vita: ho letto che sei stato in Brasile.

I miei genitori erano artisti di strada nei “Giullari senza frontiere” e li seguivo in tutto. Sono partito per il Brasile che avevo 7 anni, poi in India, Thailandia, Laos, Cambogia…

Ma li seguivi in tutti questi posti? Veramente?

Sì, certo! In India ero molto piccolo. Arrivato a 11 anni, ho detto a mamma di voler stare più con i miei amici ma ripensandoci, a conti fatti, sono esperienze incredibili, che mi hanno dato una visione molto più cosmopolita del mondo.

Ma ricordi questi momenti più come dei sogni o hai ricordi fissi e strutturati di queste esperienze?

Ho molti sogni di quei momenti, ma alcune cose me le sento proprio addosso. Il concetto della musicalità, del ballo e della festa brasiliane mi è rimasto: eravamo nelle campagne brasiliane, in mezzo alla ruralità e alle “vitacce” delle persone che qui non possiamo nemmeno immaginare. E la gente era contenta, magari solo con un piatto di riso e fagioli. Pensiamo, quindi, a goderci la nostra di vita, non dovremmo avere problemi. Se ce la fanno loro…

Hai vissuto circa sei vite in una sola, ma dov’è casa per te?

Abbiamo realizzato un video con un “salotto in strada” e il senso è proprio qui: in realtà casa mia è il viaggio. L’unica cosa, oltre alla musica come rifugio sicuro e abbraccio caldo, è proprio il viaggio. Ho un papà napoletano, una mamma siciliana, sono cresciuto in Umbria, nato in Puglia ma ora vivo a Napoli e lavoro tra Roma e Milano. Sembra quasi che non abbia le radici, ma in realtà ne ho un po’ dappertutto. La strada per arrivare a casa… è casa.

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Ti senti molto un cantautore cittadino del mondo quindi.

Non è per atteggiarsi, però è proprio così. Non saprei come altro definirmi e vivere. 

Però, così facendo, non hai paura di porti degli interrogativi e delle incertezze che magari una persona con radici solide non si chiede? E questo non ti mette un po’ spavento?

Tantissimo. Ma credo che anche chi ha delle radici solide abbia un po’ gli stessi problemi. Magari sono proprio quelle radici che non ti fanno spiccare il volo. Io ho quasi sempre la testa sulle nuvole, ma forse ho più possibilità di scendere a terra, no? Però i dubbi fanno parte di noi, non li vedo come una cosa negativa.

Torniamo al disco: qual è stata la prima canzone che hai scritto?

Nina. Un pezzo scritto con Bonomo. Il giro di accordi ce lo avevo già in testa. E l’idea di questa eterna romantica che va in giro, tutto quello che vorrei essere io e ho incontrato. Questa Nina potrebbe essere quindi anche un Nino. Non c’è l’idea di un’amore romantico dietro. Dopo il Covid sono andato a Milano e questo è stato il primo pezzo che ho scritto lì. Mi sono sentito più al sicuro, in studi di produzione professionali.

Era la prima volta per te in uno studio professionale?

C’ero già stato, ma non a Milano. Nina è stato il primo brano scritto anche con un’altra persona e questo mi ha fatto crescere e rimettere in discussione e in gioco al primo colpo.

E riguardo alla composizione di joker? 

Quella è nata con il disco già avviato. È stata prodotta da Renzo Stone, autore di Naska per capirsi. Unici due brani assieme a Nina scritti con altri, mentre gli altri sono parte di un processo creativo che è stato, fondamentalmente, il mio personale. Il mood grungettino di joker mi fa sballare, comunque...

Posso dirti che si nota un po’?

Eh per un anno e mezzo della mia vita non ho ascoltato altro che Alice In Chains e Nirvana. All day long!

Golden Years è stato uno dei produttori del disco: che apporto ha dato?

Pietro è super. A livello di produzione musicale è uno dei migliori in Italia. Quando vado da lui, porto sempre idee con una struttura, così che non perdiamo tempo. Lui ascolta le tracce e inizia a lavorare su quella che lo gasa di più. Il pezzo ha già un’anima e lui la modella, gli dà il giusto vestito. Ho una stima immensa per il suo orecchio e gli chiedo consigli anche sul lato melodico. Mi piace molto questo disco, perché ci sono gli strumenti: poca roba è computerizzata e questo mi piace molto, anche grazie a Golden Years.

Un'altra curiosità: quando capisci che un pezzo sia pronto? E soprattutto: l’hai sentito più in sette pezzi o in questo ultimo qui?

In questo. Io lo sento perché non c’è più niente nella mia testa che cambierei. Però prima di essere pronto, credo sia questa la cosa più importante, capisco che il pezzo c’è, che è un brano su cui vale la pena lavorarci, quando mi viene la pelle d’oca. Anche in un solo secondo del brano. Quel brividino mi fa dare l’ok definitivo.

Lo hai un aneddoto su questo versante?

Ti dico questo: tutti i brani in questo disco mi hanno fatto venire la pelle d’oca, ma solo una volta che li ho prodotti io. Poi a forza di risentirli, non la senti sempre. Però quando il pezzo è pronto, lo risenti con la valorizzazione che gli dà il produttore. Ti disabitua ad un brano in cui sei abituato. Con la scelta del primo singolo è accaduta proprio questa cosa qui.

Parliamo un po' del tour estivo.

Sto lavorando tanto al live. Soprattutto alle idee da portare su un palco. Voglio uno show oltre che vada oltre la musica suonata, ma siccome la difficoltà risiede nel portare la band al completo a causa del budget, cerco di trovare persone un po’ tuttofare.

Quindi non vorresti lasciare nulla al pre-registrato?

Non mi piacerebbe. Vorrei riarrangiarli da zero, live.

Un'operazione rischiosa...

Sì, però mi piace la duttilità sul palco. Oltre all’acustica suono il sintetizzatore, un campionatore con dei sample… Spero di riuscire a dare notizie più precise a brevissimo!

(c) Davide Luigi Di Lorenzo