«Di cosa vuoi che ti parli che ho poco più di vent'anni? / Se alle crisi mondiali preferisco i tuoi sguardi / Se ho appena iniziato la mia carriera da precario / E non avrò mai te o la mia amata pensione» cantava L'Orso nel 2011. Avere vent’anni negli anni dieci del Duemila è (stato) più o meno così. E sono molti gli artisti che ne hanno parlato. E, nonostante l'epoca in cui si vive ovviamente influenzi tantissimo il vissuto personale, alcuni temi ricorrono in tutte le generazioni e questo ci permette di ritrovarci e identificarci anche nelle parole di artisti che vent’anni li hanno avuti vent’anni (o più) fa.
Ecco gli album in cui i membri della redazione di noisyroad ritrovano i propri vent’anni.
MARZIA: I Cani - Il Sorprendente Album d’Esordio De I Cani (2011)
Una volta ho letto un'intervista a Billie Joe Armstrong dei Green Day che si intitolava qualcosa tipo "Non mi manca avere ventitré anni". All'epoca avevo diciannove anni anni e non riuscivo a capire come qualcuno potesse affermare una cosa del genere. Ora, svariati anni dopo, mi sembra di intendere quello che voleva dire: avere vent'anni non è solo divertimento e spensieratezza. È anche (e soprattutto) sentirsi persi, essere scaraventati in un mondo costruito da altri, fare i conti con l'essere ufficialmente adulti ma sentirsi sprovvisti degli strumenti necessari per comportarsi come tali. Recentemente mi stavo riascoltando (per la milionesima volta) il primo disco de I Cani e mi sono resa conto che descrive devastantemente bene i miei vent'anni. In Il Sorprendente Album d’Esordio De I Cani c'è tutto quello che avere vent'anni è, ed è stato, per me: l'estetica hipster, le Lomo, le Polaroid, belle foto in bianco e nero, la fissa con Wes Anderson, i leggins fluorescenti, lo strascico della malinconia adolescenziale, la ricerca di evasione, l'insoddisfazione, il cinismo, l'immagine di sé che mette ansia, David Foster Wallace, Facebook.
«Vorrei l'amore dei film di Wes Anderson / Tutto tenerezza e finali agrodolci / E i cattivi non sono cattivi / Davvero / E i fratelli non sono nemici / Davvero / Ma anche i buoni non sono buoni / Davvero / Proprio come me e te»
Mi trovo spesso a usare citazioni dei brani dei Cani per descrivere o commentare situazioni che vivo. Da «Perché anche se non fosse amore / Non per questo è da buttare (com'è logico che sia)» a «E per questo non mi riconosco in questa società / Per me contano i dischi, i bagni nel mare, l'umanità»
Il disagio e il senso di inadeguatezza sono temi ripresi ed esplorati anche nell’album successivo Glamour, evidenti in passaggi come «Da quando perdo capelli e non so che devo fare / Io da solo non ci riesco più / E non è avere gli esami, e non è avere vent'anni / Fidati, è qualcosa in più» e «Mi ritrovai con un lavoro vero / Uno di quelli proprio senza glamour [...] Ma in fondo è del tutto normale / Dormi poco e mangi male / Passerà anche questa / Passerà», in cui ritrovo tutto lo struggimento della crescita, della brama di indipendenza e la quotidiana ricerca di equilibrio, che ho vissuto (e vivo) anch’io.
A ottobre di quest'anno si conclude (anagraficamente, per lo meno) il decennio dei miei vent'anni, e mi sembra di capire benissimo Gazzelle quando dice «E ci arriveremo stanchi / Ai nostri primi trent'anni».

CHIARA: Fast Animals and Slow Kids - Alaska (2016)
Non sapevo bene quale album scegliere fra i tanti che dalla fine dei diciannove anni e lungo tutti i miei venti hanno cominciato ad imperversare e ad entrarmi in testa. Era la fase dei miei primi veri concerti sotto palco ed è stato anche un periodo di cambiamenti. Le solite cose: finisci la scuola, cambi le amicizie, perdi di vista qualcuno che fino a pochi giorni prima significava per te la vita intera per ritrovarti all'improvviso in una cerchia di nuovi amici conosciuti a caso una sera. Ero da poco uscita da scuola e da brava e diligente studentessa ho trovato subito lavoro. Non ho avuto tempo di vivermi l'estate post-maturità e mi sono ritrovata catapultata di colpo nel mondo dei "grandi". Sentendomi, nonostante, ancora ragazzina. Stavo scoprendo cosa volevo fare davvero della mia vita e nel mio ufficio ero la ragazza nuova un po' strana dai capelli grigio/viola. Mi sentivo una super ribelle ad arrivare la mattina al lavoro dopo essere tornata a casa alle 3 del mattino dopo un concerto e qualche birra di troppo.
Quello è stato il mio periodo dell'indie italiano. Stava uscendo Calcutta e i miei concerti in transenna erano diventati una prassi. Andavo a vedere i Thegiornalisti con Fuoricampo insieme ad altre cinquanta persone - in totale - in alcuni bar e pub della trevigiana e adoravo Contessa mentre suonava al piano canzoni di Aurora, il nuovo album de I Cani. E poi le triplette, sera dopo sera, tormentando i Ministri mentre portavano in giro per l'Italia Cultura Generale. Perseguivo l'amore per L'Officina Della Camomilla iniziato nel 2014 e ricordo inoltre i Tre Allegri Ragazzi Morti inseguiti fino a Genova. L'adorazione pura per Mannarino non è mancata. Senza parlare dei Management Del Dolore Post Operatorio e altre band delle quali mia madre, puntualmente, storpiava il nome - solo per citarvi i "de giornalai".
E i FASK. I Fast Animals and Slow Kids per me sono stati una grande scoperta e all'epoca portavano ancora sui palchi Alaska, il loro secondo album del 2014. In Calci in faccia cantavano «Quanto vorrei fuggire / Dal giudizio degli altri / E dalla mia insicurezza» e cantavano di me. O meglio, di me in quel preciso momento. Di come volessi essere l'artefice del mio destino senza sottostare alle regole. Pensiero comune di tutti gli adolescenti. Beh, sono stati un bel calcio nello stomaco la prima volta che li ho sentiti e mi hanno colpita ancora più forte durante il mio loro primo live. Ero arrabbiata, insicura, fragile eppure ero felice. Ero attaccata alla transenna mentre vedevo i capelli di Aimone scuotersi in aria e io che urlavo a granvoce, chiedendogli «l'ennesimo calcio».

FEDE: Boygenius - Boygenius (2018)
Di anni ne ho compiuti 24 solo qualche mese fa, quindi quando mi è stato chiesto di pensare a un disco che associassi ai mie vent'anni la scelta non è stata facile. Di dischi ne ascolto a bizzeffe, ce ne sono moltissimi che, per una ragione o per l'altra sono particolarmente importanti ma sceglierne uno da abbinare a un periodo così importante della propria vita è più difficile di quanto si possa credere. Dopo mille ripensamenti, però, mi è caduto l'occhio su un vinile che mi è stato regalato dal mio migliore amico per il mio penultimo compleanno e che tengo incorniciato sopra la scrivania. E così è arrivata l'illuminazione: c'è un disco che più di ogni altro mi è entrato nel cuore e che ogni qualvolta riascolto mi porta a pensare «chissà cosa abbiamo fatto di tanto buono per meritarci tanta bellezza». Si tratta di Boygenius, l'omonimo EP nato nel 2018 dalla collaborazione di Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker, tre delle più promettenti e apprezzate cantautrici del panorama alternative/indie folk contemporaneo. Il primo pensiero che balena nella testa fin dal momento in cui si preme il tasto play è che queste tre ragazze fossero fatte da sempre per suonare insieme e si siano finalmente trovate. In uno dei primi singoli estratti, Bite The Hand, c'è una strofa che recita «here's the best part distilled for you». E questo lavoro non fa che confermarsi il frutto della parte migliore di ognuna delle tre artiste, confluita in unico disco. Si tratta di sei tracce tanto intime e delicate quanto schiette e sincere. In soli 21 minuti di durata ti arriva dritto in faccia che cosa significa essere donne e avere vent'anni, avere paura di occupare spazio, non sentirsi mai abbastanza, trovarsi perennemente fuori posto ed essere terrorizzate all'idea di mostrarsi completamente agli altri.
Boygenius è un album viscerale e puramente catartico, che se ascoltato in un momento particolarmente buio può fare sì malissimo, ma al contempo aiutare a tirarsi su, a pensare: «ok, oggi sto di merda e probabilmente rimarrò tutto il giorno sotto le coperte a piangere, ma domani andrà meglio». L'effetto può essere paragonato a quello descritto dalle nostre tre beniamine in Salt in The Wound, quello del sale cosparso su una ferita seguito da un bacio sulla guancia. Mi sono chiesta spesso, fin dalla sua pubblicazione, cosa avesse questo EP di così tanto speciale e alla fine sono arrivata alla conclusione: è uno di quei dischi che senza fare troppo baccano ti prende per mano e ti aiuta a specchiarti nella tua fragilità e a farti forza delle tue debolezze.

MARTINA: Franz Ferdinand - You Could Have It So Much Better (2005)
Da gran paraculo di prima categoria, durante la mia teen age non mi sono mai esposta oltre una certa soglia. A casa ascoltavo Origin of Symmetry dei Muse dal vecchio lettore cd di mia sorella, considerando quelle tracce una compagnia migliore di qualsiasi altra persona. Entrata nei 19 anni, è avvenuta una rivoluzione sotto tutti i punti di vista. Come dice Lorde in Perfect Places, «I'm 19 and I'm on fire». Improvvisamente sfacciata, ho stretto amicizie nuove e diversissime fra loro. Ho vissuto pseudorelazioni come se fossero brevi partite a scacchi, ho subìto un intervento d'urgenza che ha cambiato la mia percezione della vita e della morte, ho visto quattro dei miei amici più stretti prendere le distanze. A 20 anni il concerto dei Kasabian, a più di 800 km da casa, è accaduto come una promessa: "le cose belle sono per tutti e, prima o poi, succedono". Da allora credevo che sarebbe stata una passeggiata in discesa, ma quando mai ci ho azzeccato su 'ste cose?
You Could Have It So Much Better dei Franz Ferdinand è un album che sa di anni 2000 e di ostacoli affrontati con ironia e spensieratezza. É un inno all'agire senza considerare le aspettative altrui, senza rispettare il pattern studi/lavori-poi ti sposi-poi fai figli, perché c'è tutto un universo al di là di ciò che fa la maggior parte della gente. Il tema della ribellione dalle convenzioni sociali fanno del disco un potente alleato contro il senso del dovere, alleviando le pressioni da parte del mondo circostante. La prima traccia, The Fallen, esprime in sintesi il mio tollerare le religioni per motivi puramente storico-sociali, nonostante io sia in disaccordo con molti princìpi cardine di esse. Il profeta narrato dai Franz Ferdinand è un tipo figo, simpatico e carismatico. Spacca bottiglie a caso e vede la virtù nei maledetti. Potrebbe essere uno qualsiasi di noi con attitudini da leader o, come si dice nel mio paesino, di "sindaco della piazza". A me piace pensare che esso sia un modello anticonformista e "sciallo" per la nostra generazione, spesso forgiata dall'ansia e dal senso di inadeguatezza. Riguardo i vent'anni, come non menzionare le notti brave, le braccia di qualcuno che hai conquistato maldestramente, il vino a fiumi alle cene fra compagni di corso... Una strofa di Evil and a Heathen dice «Your teeth are black with wine / As you place those lips on mine / The moon hangs heavy and forbidden high / On the night of our lives». Ogni traccia di quest'album sembra gridare "vai tranquill* per la tua strada, non importa quanto diversa, assurda e complicata possa sembrare, perché è solo tua".

MV: Cosmo - L'ultima festa (2016)
Ci ho pensato tanto, veramente tanto, e la maggior parte dei miei dischi del cuore sono legati al periodo del liceo, da What Did You Expect From The Vaccines? a Favourite Worst Nightmare. Il periodo in cui si è scolpita la mia viscerale passione per l'indie Made in UK, e quel pizzico di superficiale snobismo nei confronti della musica italiana (a posteriori molto sciocco). Capitemi, nella vita di ogni sedicenne c'è un moto di rivolta verso le proprie origini, si vuole scappare, allontanarsi da tutto e da tutti, e in quegli anni il Regno Unito sembrava essere il paese dei balocchi.
Poi entri improvvisamente nella fascia dei venti, arrivi all'università, finalmente fai nuove conoscenze, i ragazzi sono più grandi e più aperti di mente e tra uno spritz economico e un esame di microeconomia, in una playlist per una grigliata dell'associazione studentesca di cui fai parte trovi L'ultima festa di Cosmo. Quel giorno rimasi letteralmente folgorata da quel beat in crescendo che ti avvolge la testa e in un batter d'occhio agisce come un bicchiere di troppo sopra la tua soglia di tollerabilità, lasciandoti andare completamente. Per una ragazza che di italiano ascoltava praticamente solo L'Officina Della Camomilla, improvvisamente l'indie nostrano non faceva così schifo.
Il primo merito di Cosmo è stato quello di avermi fatto apprezzare ancora di più l'elettronica, le botte sonore che ti sconcuassano le orecchie di Cazzate, la scarica di adrenalina che ti scende lungo la colonna vertebrale con L'ultima festa, la spensieratezza e la leggerezza che ti avvolgono in Un lunedì di festa. Il secondo disco di Cosmo fonde alla perfezione le varie sfaccettature di questo genere musicale, senza mai risultare troppo duro o troppo chill out, caratteristica che mi ha fatto perdere la testa e mi ha portato a divorare anche il terzo album: Cosmotronic; come la musica di Cosmo, ero maturata anche io e quei toni acidi e spigolosi furono la riprova che in quest'artista c'è qualcosa di geniale e il suo cantautorato elettronico è il perfetto rimedio per mettere a tacere per un momento i pensieri che sovraffolano la mente di una ventenne, dalla paura per il futuro ai dubbi su quando rimetteremo insieme tutti i pezzi di un cuore spezzato. Volume al massimo in cuffia, balli sconclusionati a piedi nudi sulle piastrelle del bagno di casa e passa tutto.
Forse quello che più mi ha fatto affezzionare a Cosmo e a questo disco e che, a parere mio, sintetizza i vent'anni, è la descrizione dell'amore. Canzoni come Impossibile con quel «Qui dentro a questa camera / Succede l'impossibile» o Regata 70 con quel «In te / C'è qualcosa di diverso / Qualcosa che non so /Qualcosa che non vedo» sono pezzi in cui mi ci sono rivista moltissimo, che ascoltavo e tuttora ascolto pensando "Hey, ma sta parlando di me": un amore più maturo, intriso di un romanticismo più reale e fisico, soddisfacente, preso di petto e carico di aspettative. Forse è proprio per questo che con tutti gli album che potevo scegliere opto per questo, perchè i testi di Cosmo sono giovani e congelano in tre minuti, senza tanti giri di parole, i sentimenti complicati e contrastanti di questi anni. Per questo connubio di elettronica soft e cantautorato, il disco è stato ottimo per i centinaia di viaggi in treno che stanno caratterizando questi anni, tra relax, meditazioni ispirate al paesaggio fuori dal finestrino, lacrime di stanchezza e delusione e grandi, grandissime speranze.

GIADA: alt-J - An Awesome Wave (2012)
Una delle mie caratteristiche di cui vado più fiera è il fatto che non mi lascio condizionare da niente e nessuno, soprattutto in termini musicali. Raramente, infatti, ascolto le playlist di Spotify con i pezzi del momento e poche volte è successo di innamorarmi follemente di una band consigliata da amici. Ogni volta che qualcuno, conoscendo la mia passione sfrenata per i concerti, mi dice: “Dovresti assolutamente ascoltare questa band, live sono fortissimi!”, io ignoro il consiglio, non perché non mi fidi, ma perché da sempre ho questo rapporto molto particolare con la nuova musica. Altri, in base ai miei gusti, insistevano nel voler farmi ascoltare determinati gruppi, primi tra tutti gli alt-J ed anche se la loro fama li precedeva, mai mi sarei sognata di schiacciare play ai loro album di mia spontanea volontà. Mi diverte pensare ad un artista o ad una band che entra nella mia vita come una nuova relazione umana: i rapporti non si cercano, arrivano e basta, spesso quando meno te l’aspetti!
Il giorno che ho compiuto vent’anni (tre anni fa, ormai) l’ho passato in camera a fare la cosa che più all’epoca mi rilassava: disegnare. Ricordo che sentivo il bisogno di ascoltare qualcosa di nuovo e di innamorarmi. Ho fatto partire la riproduzione in ordine alfabetico e le prime note furono quelle di An Awesome Wave. Inutile raccontarvi di quanto quei brani mi abbiano stregato al primo ascolto, è stato proprio un fulmine a ciel sereno. A fine giornata, con le orecchie ormai stremate dopo ascolti a ripetizione, comprai il biglietto del concerto di Roma perché in quel momento non desideravo altro che ascoltare quell’album live. La loro musica nuova, moderna e bizzarra allo stesso tempo mi aveva completamente ipnotizzato.
Approfondire la storia di questo disco è stato molto divertente, soprattutto perché dopo innumerevoli ascolti vedevo quei pezzi solo come elementi “sacri”. Ho scoperto che la Matilda che il duo di Leeds intendeva è quella del film Leon, oppure che l’ossessione per la forma geometrica del triangolo traspare sia nel nome della band (premendo il tasto "Alt" e quello della lettera "J" si ottiene "Δ") sia nei testi delle loro canzoni («Triangles are my favourite shape - Three points where two lines meet», cantano in Tesselate). Il mondo degli alt-J mi piaceva sempre più.
An Awesome Wave è senza dubbio l’album dei miei vent’anni e devo ammettere che mi spiace non averli scoperti e amati prima. Nonostante questo credo che siano state solo le circostanze che ho vissuto in quel periodo a farmi apprezzare così tanto il duo di Leeds. Cambiare decennio d’età (dai 19 ai 20) è stato molto difficile, non sono mai stata un’amante delle responsabilità e dentro di me sognavo una vita da diciannovenne in eterno. Il disco credo mi abbia aiutato ad affrontare alcuni temi che mi tediavano di continuo, dalle prospettive di un lontano futuro al come affrontare il domani. La risposta l’ho trovata nella mia canzone preferita Something Good, perché la speranza che ci sia qualcosa di buono, al mondo, rimarrà sempre.

GRETA: Arctic Monkeys - Suck it and See (2011)
Ho compiuto vent'anni nel 2011. Lo so, questo significa che mi sto avvicinando inesorabilmente all'età dell'ok, boomer. Però se mi chiedeste «do you still feel younger than you thought you would by now?» la risposta sarebbe sì, decisamente sì. Questa frase di Love is a Laserquest mi rappresentava quando è uscita la canzone e continua a farlo adesso. Faccio davvero fatica a realizzare che sono passati nove anni dal 2011. Quell'anno la mia band preferita, il gruppo che più mi ha accompagnato nel corso dei miei vent'anni, ha pubblicato il suo quarto album Suck it and See. Pur essendo estremamente di parte quando si parla degli Arctic Monkeys, devo ammettere che al primo ascolto questo album non mi aveva convinto. Non so nemmeno io spiegare il motivo, l'avevo trovato interessante ma mi sembrava mancasse qualcosa, soprattutto confrontandolo con gli altri lavori della band. Continuo a non essere la più grande fan di Brick by Brick – sorry, prima o poi dovevo ammetterlo pubblicamente.
Ma nel corso degli anni ho rivalutato Suck it and See e ho cominciato ad apprezzarlo seriamente. Ho amato la semplicità di She's Thunderstorms, ho cercato di interpretare senza mai venirne a capo Library Pictures, ho proposto Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair a chiunque mi chiedesse un consiglio su cosa ascoltare degli Arctic, ho trascritto ovunque i versi della già menzionata Love is a Laserquest. Mi sono concentrata sui testi, che rimangono il punto di forza dell'album. Mi è piaciuto come si passasse da «I took the batteries out my mysticism/ And put them in my thinking cap a What you waiting for?/ Sing another fucking shalalala» nel corso della stessa canzone. È un susseguirsi di metafore mai banali e spunti di riflessione. È un album che non mi ha più abbandonato, da ascoltare e riascoltare. Mi piace pensare che in futuro mi verrà in mente questo quando ripenserò ai miei vent'anni.

CLAUDIA: Mac DeMarco - Salad Days (2014)
Ho compiuto vent'anni in uno dei momenti più confusi della mia vita. Sono sempre stata una persona che aveva più o meno chiaro in mente dove stava andando e cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo, ma una volta catapultata fuori dalle superiori, mi sono accorta che forse no, non c'era proprio nulla di chiaro. Mi sono quindi ritrovata a cambiare corso di laurea, trovare un lavoro per la prima volta... Insomma, a vivere d'un tratto un prototipo di vita adulta fra turni, scartoffie e nuove responsabilità. Ma soprattutto, tante scartoffie.
Mac DeMarco, scoperta di quel periodo, è riuscito a registrare su nastro praticamente tutto quello che mi stava passando per la testa. Salad Days racconta perfettamente -ancora oggi, a tre anni di distanza a dire la verità - di come sia sentirsi schiacciati fra l'incudine delle responsabilità, il bisogno imposto di omologarsi e seguire un percorso prestabilito in contrapposizione a quello di camminare alla propria velocità, seguendo la propria strada.
La title track dell'album è quella che riesce a descrivere in modo più accurato i miei pensieri al tempo: la paura di aver preso decisioni sbagliate dalle conseguenze irreversibili (dunque, «actin' like my life's already over»), la fatica dei primi turni di lavoro a contatto col pubblico («Always feeling tired, smiling when required /Write another year off and kindly resign») e l'inevitabile realizzazione che gli anni da teen siano belli che finiti, forse addirittura sprecati («Missing Hippie Jon, salad days are gone /Remembering things just to tell ‘em so long»).
Blue Boy invece è stata spesso di conforto per me. Era come se Mac stesso mi dicesse "ehi, smettila di agitarti per tutto, calmati e cresci!". Le canzoni di Mac mi hanno spesso consolata, facendomi capire che tutti temiamo di vivere fuori tempo, ma che effettivamente è giusto così e prima lo si accetta, prima possiamo tirare un sospiro di sollievo e cominciare effettivamente a vivere. Forse il pregio dei vent'anni è questo: un giorno ti svegli e ti rendi conto che il mondo sta girando nel verso opposto rispetto a quello che pensavi; senti il bisogno di muoverti, così un giorno inciampi e ti senti il peggiore, mentre un altro ti senti invincibile e pian piano cominci ad amarti per il "perdente" che sei, ogni volta un po' di più, apprezzandoti per quello che sei diventato dopo tutte le batoste prese, anche quelle che meno ti saresti aspettato. E c'è da dire che Mac ha contribuito a farmelo capire.
Understand that when you leave here
You’ll be clear, among the better men
Chamber of Reflection

JACK: The Strokes - The New Abnormal (2020)
Racchiudere l’epopea dei vent’anni in un solo disco non è un compito facile né tantomeno un processo conclusivo. Eppure, eccoci qua a cercare di dare un volto a questo flusso. La mia scelta? The New Abnormal, la tanto attesa ultima fatica degli Strokes. Sebbene già in passato la band newyorkese abbia dato voce ai sentimenti di una generazione con il loro debutto nell’allora nuovo millennio, persino nell’indecifrabile 2020 il loro sound risulta attuale ed esplicativo di un mondo fatto d’incognite nelle realtà personali di ciascuno. Una fermezza che sul miraggio di Billy Idol in Bad Decisions emancipa i propri riferimenti (a volte autoreferenziali) per creare una propria identità univoca, conscia che alle volte sia necessario, come in Brooklyn Bridge To Chorus, perseverare il mantra di affidare il tutto ad un’altra canzone, in un altro giorno.
When they said it was the beginning of the best years even though..... false break
Ahia julian, che dolor.

DAVIDE: Kendrick Lamar - To Pimp a Butterfly (2015)
Il disco dei miei 20 anni è stato senza ombra di dubbio To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar. In un (ormai lontano, sono vecchio) 2016 ero ancora la versione di me stesso cresciuta a pane & indie, classic rock e dischi paleozoici che ne conseguono. Per me il concetto di "nuova musica" si fermava agli anni '90 per intenderci. I miei coinquilini provavano ad imboccarmi piccole dosi di rap, hip hop e suoni più correnti per cercare di aprire le mie vedute da vecchia cariatide da sobborgo centro-italiano, ma se non per qualche occasionale successo i risultati erano scarsi - io di beats, flow e autotune non ve volevo sentire.
Mettendo il naso fuori dall'uscio di casa leggevo in continuazione del nuovo disco del signor Lamar uscito circa un'annetto prima, elogiato in tutte le salse, una rivoluzione musicale, un capolavoro dell'arte moderna... ma niente, poco ci credevo. "Non è per me", mi dicevo. Lo salvo su Spotify, ma giusto così per lasciare una speranza accesa, un po' come comprare i jeans una taglia più piccola per mettersi a dieta, una grande presa in giro verso me stesso ecco. Fin quando per una serie di sfortunati eventi mi ritrovo appiedato, in piena notte a dover tornare a casa COMPLETAMENTE sbronzo con solo le cuffiette ad accompagnarmi. E così per provare, finalmente, lo faccio partire. Sarà stato l'alcol, la notte o qualche intervento divino ma qualcosa è scattato. È stato come essere colpiti da un fulmine, ogni nota, ogni basso, ogni verso mi colpisce come una tonnellata di mattoni. È stata un'esperienza assolutamente illuminante e uno dei momenti cardine della mia carriera da consumatore musicale, il punto di non ritorno per le mie orecchie che da quel momento, sono sempre ansione di uscire fuori dalla loro zona di comfort. Grazie Kendrick e grazie al disgustoso sistema di autobus del sud-ovest inglese che mi ha costretto a una camminata decisamente importante.

«La fine dei vent'anni/ É un po' come essere in ritardo/ Non devi sbagliare strada/ Non farti del male/ E trovare parcheggio»
Motta - La Fine Dei Vent'Anni