11 giugno 2018

Arctic Monkeys @ Mediolanum Forum, Milano

Nel 2005 ero la tipica studentessa impopolare delle medie: avevo ancora lo zaino con le stampe di un cartone animato, mi allacciavo per precauzione le mie Adidas Superstar, ero sociopatica, compravo giornalini pieni di poster dei Green Day e guardavo TRL in attesa della loro posizione nella classifica giornaliera. Inconsapevolmente, stavo vivendo nell’epoca d’oro di MTV Italia, tempi in cui le uniche immagini in movimento erano videoclip e gli award venivano assegnati ai più meritevoli, il momento giusto per la Telecom Italia di investire del denaro per fondare FLUX, un canale “fratello” che in seguito si rivelò uno spartiacque nella musica contemporanea: in quelle poche ore di attività veniva proposta un’alternativa fresca ed esuberante che si contrapponeva, un po’ con un ingenuo sentimento antisistema, a ciò che abitualmente recepiva la massa, curiosità allettanti per una bambina poco propensa a terminare in fretta gli innumerevoli compiti per il giorno successivo. Una sera di inizio inverno, il mio sguardo si incantò su un video di pessima qualità con quattro mocciosi riuniti sotto un nome incredibile. L’emozione fu tale da saltare dalla sedia a bocca aperta ed immaginarsi di impugnare, nel ritmo incalzante di quella “scommessa”, delle bacchette per eseguire le stesse mosse di quel biondino urlatore.

Sono passati tredici anni da quel primo incontro virtuale, eppure non avevo mai smesso di sognare di assistere ad un live degli Arctic Monkeys. Finalmente lunedì 4 giugno è arrivato nel migliore dei modi, ho avuto modo di vederli da uno spazietto al centro della prima fila del parterre del Forum di Assago (MI), con l’adrenalina in corpo nonostante il tempo inclemente e la vecchiaia incombente, troppo entusiasta del supporto del favoloso Cameron Avery, polistrumentista maggiormente noto per essere membro dei Tame Impala. La sua carriera solista è la meta di un percorso iniziato in tenera età, giovinezza segnata dall’ascolto di cori gospel, di arrangiamenti blues e di malinconiche soul. In Ripe Dreams, Pipe Dreams, l’album di debutto uscito nella primavera del 2017, c’è spazio anche per il crooning, il rockabilly, e qualche rimembranza gainsbourghiana e beatlesiana. Chi non lo conosceva, ne è rimasto subito affascinato, infatti ad ogni canzone il suo trio under 30 è stato accompagnato da cori da stadio, da torce di cellulari, da ritornelli semplici da apprendere. In mezz’ora, chiunque aveva capito che questo artista dal timbro unico è il fedele amico di cui Alex Turner aveva bisogno per inaugurare il suo lussuoso complesso turistico nel mare Tranquillitatis. Cameron Avery ha sfruttato il poco tempo a disposizione con una scaletta intelligente, con i cinque brani migliori dell’album ed una cover in cui si è sbizzarrito assieme ai compagni in una jam session:

  1. Do You Know Me By Heart;
  2. Wasted on Fidelity;
  3. C’est Toi;
  4. Nightclubbing (Iggy Pop cover);
  5. Dance with Me;
  6. Watch Me Take It Away.
Il sorriso di chi ce la mette tutta e si sente realizzato: Cameron Avery ammira la folla che lo segue con animo durante l’esecuzione di C’est Toi. Fotografia di Emanuele Di Cintio.

L’attesa per l’apertura dei cancelli pareva una manciata di secondi in confronto a quegli interminabili minuti del cambio dell’attrezzatura, molto fornita e congeniale ai tre turnisti che avevano partecipato alle registrazioni di Tranquility Base Hotel & Casino (che ho recensito per NoisyRoad), il sopraccitato Avery, Tyler Parkford dei Mini Mansions e Tom Rowley dei Milburn. L’abbiamo osservata con gran stupore, allo stesso modo dei bambini di fronte ai doni di Natale: in essa vi erano un supporto per pedaliere lungo cinquanta centimetri per Jamie Cook; il basso scarlatto Burns di Nick ‘O Malley; una batteria elettronica che seguiva l’estetica del nuovo album; l’insegna dell’albergo e casinò raffigurata nella grancassa di Helders; quattro tastiere; la Gretsch color crema che è servita a Turner per una sola canzone. Nel frattempo, gli altoparlanti riproducevano le tracce che avevano ascoltato le scimmie durante la registrazione del sesto lavoro (tra di esse: The Hurt di Cat Stevens; Baltimore di Nina Simone; Blue Murder di Alan Hull; Un bacio è troppo poco di Mina) ed io cercavo di rifocillarmi come i natanti che si riempiono i polmoni d’aria poco prima di inabissarsi. Stavo tra la N e la K di un gigantesco «MONKEYS», lampade bianche appese ad una superficie nera con strisce argentate che davano l’impressione di essere davanti ad una tappezzeria fantascientifica; ogni volta che la osservavo, mi domandavo quale fosse il motivo che aveva spinto i quattro di Sheffield a togliersi l’aggettivo, il primo elemento che attirava l’attenzione di chi era ignaro della loro musica: oggi ricordo che due mesi fa Turner aveva fatto intendere ai lettori di «Intro» che ormai gli uomini ritenevano fanciullesca questa concordanza.

La prassi (di cui non ero al corrente perché volevo preservarmi da ogni fuga di notizie) è questa: ad inizio concerto le scimmie e i turnisti reinterpretano nel ruolo di orchestranti il videoclip di Four Out of Five, introdotti da quella stessa luce rossa lampeggiante che contribuisce ad aumentare la tensione narrativa. In quell’istante, un fitto crocchio di fotografi si dimenava per la passerella sotto al palco, mentre attorno a me braccia tese con dita che avevano già premuto il tasto Rec del proprio telefonino cercavano di infilarsi tra le spalle degli astanti di fronte. Mi dispiace per loro, ma non stavano partecipando ad una serata chic targata «Vogue»!

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Si dice che «chi va con lo zoppo, impara a zoppicare», ma vi assicuro che i tredici anni di disagi turneriani non mi hanno influenzato, bensì mi hanno permesso di ritrovare in lui un po’ di me stessa, riuscendo così nel tempo a farmi meno problemi sulla mia persona. Per questo motivo, ho lasciato perdere questo mondo di schermi e di commenti tecnici e sono partita sulla Luna con lui e il suo equipaggio: ancora oggi faccio fatica a ricordarmi i particolari di quella botta energica di 90 minuti, e un po’ mi pento di non aver osservato a lungo Cook, troppo a destra per i miei occhi e per il mio corpo che veniva costantemente pressato verso la transenna, e quel carro armato di Helders, nascosto da Turner ogni volta che la sua voce si doveva accompagnare alla sua chitarra. Ho cercato di dare il mio supporto con tutta me stessa: ho perso la bussola con Brianstorm e Pretty Visitors in sottofondo, ho pianto di gioia per quasi tutto il tempo (il momento più emozionante è stato con Cornerstone, momento di maggiore dialogo con il pubblico), non mi sono vergognata di mimare alcune frasi per ricordarmi le parole, di ballare «as if somebody’s watching, ‘cause they are», di fare headbanging mentre ascoltavo una delle canzoni che mi ha distratto dall’ansia pre-esame di maturità, Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair.

Mai abbassare la guardia, Mr. Agile Beast è scatenato! Fotografia di Emanuele di Cintio.
La bellezza e la grazia di Nick ‘O Malley, seppur spontanee, ci hanno colto inermi. Fotografia di Emanuele Di Cintio.

Quando il proprio punto di fuga è il frontman del gruppo, non si può fare a meno di osservare le sue pose flamboyant, di applaudire la sua voce decisamente migliorata dalla sua ultima apparizione pubblica (il tour logorante dei Last Shadow Puppets), di sorridere della sua amnesia (da lui stesso messa in ridicolo sul finale di One Point Perspective) e dei suoi tic, di ammirare la sua concentrazione mista ad un’impercettibile timidezza, travisata come supponenza dagli annoiati in tribuna. La sua dramatis persona non ha offuscato il fulgore degli assoli di Cook, dell’indispensabile aiuto di Rowley (che più volte lo abbiamo visto imbracciare la Jazzmaster del collega) e della voce di accompagnamento di ‘O Malley in One For The Road.

«Grazie Milano, un bacio è troppo poco». Fotografia di Emanuele Di Cintio.
Un fisico imponente, una chitarra tagliente. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
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Tornati sulla Terra dopo cinque anni di riposo e di esperienze individuali che hanno favorito ad aprirli ad un nuovo gusto estetico, gli Arctic Monkeys continuano tutt’oggi a scommettere sulle piste da ballo e su se stessi. Senza ascoltare le pretese di nessuno, nemmeno della propria casa discografica che, seppur con qualche tacita riserva, si stringe con vigore alle loro firme, hanno lanciato un album tanto genuino quanto rivoluzionario con una maggiore sicurezza verso le proprie qualità e una maggiore sensibilità verso le proprie debolezze, colmate dagli amici colleghi e dall’amatissimo produttore James Ford. Dal vivo, l’ensemble è armonico, non artificioso, né condito da qualche virtuosismo trionfante: è la musica che parla veloce e ha l’apparenza di un soffio poderoso; la scaletta non è raffazzonata, bensì bilanciata tra i classici movimentati (ho apprezzato l’arrangiamento lento nei cori di The Wiew From The Afternoon), le ballad romantiche e i briosi ritmi jazz spaziali. C’è però qualche ramanzina da fare alle nostre scimmie del Polo Nord. La star più brillante della serata è stata – che sorpresa! – l’ospite Cameron, infaticabile diletto così calorosamente acclamato da Turner a fine esecuzione di She Looks Like Fun, canzone nella quale presta la sua caldissima voce. La reticenza riguardo agli altri componenti del super gruppo mi ha creato delle perplessità (non tutti i milanesi lì presenti conoscevano Parkford!), sicché ritengo che dietro a questo complimento appassionato ci fosse una sorta di pubblicità per un amico squattrinato (ma suona nei Tame Impala?!)…si sa, Turner non è nato filosofo. Gli Arctic Monkeys – o meglio, i Monkeys Sheffield – sono dunque dei camaleonti talentosi e furbetti. Per essere dei nuovi sé, non si deve prima affermare a un mister di «MOJO» di aver chiuso per sempre con la vecchia vita tutta pomate e sviolinate, né è sufficiente scolorirsi la pelle se si rimane saldamente aggrappati a quei rametti rigogliosi che a loro hanno fruttato tanti milioni. Nelle interviste recenti, Alex Turner ha ripetuto come un disco rotto che voleva far fuori il suo ego romantico, eppure continua a raccontarci le sue tristi giornate di gennaio per poi farsi bellissimo con il suo limpido falsetto; come un pavone spennato, ci chiede se vogliamo essere suoi, quando poteva benissimo congedarsi dritto nella camera 505 (incomprensibilmente messa in sesta posizione) oppure strapparci un’ultima lacrima con un motivetto dozzinale (The Ultracheese)...non è forse il tour promozionale di Tranquility Base Hotel & Casino, questo? Già, i pezzi di AM sono una garanzia se suonati in un Paese dove sono attecchiti recentemente, inoltre piacciono tanto ai fan più giovani alle prese con i primi amori. Riguardandola, la scaletta non è nulla di cui una donna adulta dopo 13 anni di attese sofferte aveva bisogno. Ma no, non fateci caso all’amarezza di chi ragiona a mente fredda, d’altronde lo dice lo stesso Turner, «love’s not only blind but deaf», ed io sono pazza di loro, nonostante abbiano sacrificato tante gemme preziose che avrebbero messo ancora di più a soqquadro il Forum: From The Ritz To The RubbleThis House is a CircusDance Little Liar; Love is a Laserquest (e per motivi personali, aggiungo American Sports). Non mi resta che continuare a sognare.

Ecco la scaletta della serata:

  1. Four Out of Five;
  2. Brianstorm;
  3. Crying Lightning;
  4. Do I Wanna Know?;
  5. Why'd You Only Call Me When You're High?;
  6. 505;
  7. One Point Perspective;
  8. Do Me a Favour;
  9. Cornerstone;
  10. One for the Road;
  11. Arabella;
  12. Tranquility Base Hotel & Casino;
  13. She Looks Like Fun;
  14. Knee Socks;
  15. Pretty Visitors;
  16. Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair;
  17. I Bet You Look Good on the Dancefloor.
    Encore:
  18. Batphone;
  19. The View From the Afternoon;
  20. R U Mine?.

E per finire, altri assaggi:

Nightclubbing. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
Wondrous riffs. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
The first Yorkshire monkey. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
Space cowboy. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
In the eye of the Brianstorm. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
In the eye of the Brianstorm. Fotografia di Emanuele Di Cintio.
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