In un'Italia in cui si citano come ultimi veri intellettuali Pier Paolo Pasolini e Umberto Eco, in cui da anni si parla di appiattimento culturale e solo il 40% della popolazione dichiara di aver letto almeno un libro negli ultimi 12 mesi, una band che non ha paura di citare solo nell'ultimo album (Elvis uscito qualche settimana fa) Sylvia Plath e Montale, è un faro nella nebbia della cultura italiana, che travalica la mera nicchia musicale e diventa un esempio di come riferimenti alti non devono rimanere lì in quanto tali ma possono essere traslati e resi accessibili anche nella cultura pop.
Ieri sera siamo stati alla seconda delle due date ultra sold out dei Baustelle all'Alcatraz di Milano, che non ha fatto altro che rinforzare la mia stima per il gruppo. Parlo di stima perchè Bianconi e soci, in un momento storico di musica più che leggerissima, non si vergognano di parlare di cose generalmente considerate impegnate e "pesanti", che gli vale una certa spocchia, un particolare tipo d'essere snob: l'eleganza e la classe di chi sa di sapere e lo fa trasparire con nonchalance, non ha bisogno di tirarsela e non risulta posticcia, perchè quegli elementi sono talmente radicati e parte della loro essenza che emergono con una tale naturalezza tanto da incantarti. Vuoi ascoltarli per ore per saperne sempre di più e pendi dalle loro labbra.
Questo modo d'essere si riflette in primis sul palco che presenta una produzione sobria: un drappo rosso, teatrale alle spalle, incorniciato da un led bianco, nell'angolo in alto a destra campeggia in corsivo su neon "Baustelle". La band è circondata da vecchi riflettori da cinema che si accendono poco dopo le 21.30 per accogliere Francesco, Rachele e Claudio come sempre avvolti nei loro raffinatissimi outfit retrò (Alessandro Michele, sei tu?), accompagnati da 4 turnisti che verranno presentati nel corso del concerto con un momento musicale che sembra una poesia Beatnik. Si comincia con una serie di brani del disco appena uscito tra: Andiamo ai rave, Betabloccanti cimiteriali blues, Los Angeles su cui a sorpresa si incastra il classicone La guerra è finita. Il pubblico va in visibilio, non c'è una bocca da cui non veda uscire ogni singola parola del testo. Il live fin da subito appare come un attesissimo ritorno, intorno a me i fan guardano adoranti il palco, nessuno si distrae, c'è chi filma l'amico mentre improvvisa il karaoke Contro il mondo e Monumentale, chi urla nel sentir pronunciare il nome di Amanda Lear e chi non aspettava altro che Veronica n.2, scommetto anche che c'è chi diviso tra un odi et amo per Milano si sia ricredendo dopo aver sentito Milano è la metafora dell'amore e Un romantico a Milano. L'affetto dei fan viene ricambiato dalla band che regala loro chicche quali Baudelaire e La moda del lento, ma soprattutto il terzetto dell'encore composto da: Le rane, Gomma e La canzone del riformatorio. Su Charlie fa surf non vorremmo che unirci tutti in un grande abbraccio, un brano che ormai è diventato un inno generazionale, mentre Il liberismo ha i giorni contati con quell'intro sobrio di hammond che affoga nel rock n roll... Colpiti ed affondati.
Per due ore i Baustelle non si muovono come le rock star quali sono, da una parte all'altra del palco, ma con le loro mosse misurate e composte, Bianconi che si staglia dinoccolato in tutta la sua altezza con quella camicia anni '70 aperta fino al petto, gli occhiali over, aggrappato al microfono e Rachele che fa frusciare il suo ampio completo bianco mentre suona tastiere e tamburello, catturano completamente l'attenzione dei presenti, dimostrandoci che alla fine il grande pubblico lo si riesce a conquistare e far muovere anche col "criticare il grande vuoto, la sinistra che non c'è", l'introversione (e introspezione) e i periodi lunghi. In fondo in fondo, diciamocelo, con i nostri tentativi di letture impegnate, i film d'essai, i mocassini e le sigarette fatte a mano tutti vorremmo acquisire un briciolo di sintomatico mistero dei Baustelle, ma arrivarci.