Milano è sempre stata la giusta casa per me e per tutti i musicofili notturni alla ricerca dei concerti di amici di amici negli scantinati, degli aperitivi coi live acustici nei cortili, le mattine in after ai concerti de La Gioventù Musicale la domenica mattina e poi le albe di Piano City. Poi c’era tutto quel vino al bancone del bar dell’Ohibò mentre si aspetta un concerto e la calca delle estati al Lume. Tutte cose che questo periodo di appena due mesi di quarantena ci ha allontanato, come se appartenessero ad una vita precedente. Apprendo stamattina, tra l’altro, mentre rimetto mano a queste parole, della chiusura del Serraglio (che segue la devastante sparizione dai radar anche dello stesso Ohibò), tempio delle serate più incredibili che proseguivano le cene alla Balera dell’Ortica. Questa mia Milano mi risulta sempre più vuota. Da qualche settimana, comunque, i live in qualche modo sono ripresi dopo questi mesi di silenzio, concertini in cui stiamo facendo finta, sempre un po’ impacciati e con le mascherine rigorosamente sopra le narici, che sia tutto ok tra un Serraglio e un’Ohibò che intanto scompaiono.
Damon Arabsolgar @ La Corte Dei Miracoli
Uscire di casa per andare a un concerto è stato bellisimo, ed è accaduto davvero, il primo è stato quello di Damon Arabsolgar in solo (ex Pashmak, Mombao) alla Corte dei Miracoli. Ed è stato anche strano ritrovare quelle persone che a volte incrociavi sfasciate per terra durante qualche pericolosissimo assembramento, prima ancora che questa parola diventasse un trend su Twitter. Ora, invece, tutte timorose tra distanze e mascherine. E dopo due mesi di silenzio pomposo e serie su Netflix con la colonna sonora di Frah Quintale, fa piacere anche il ciacchiericcio diffuso all’ingresso, i bicchieri che si urtano, i commenti non richiesti. Il ricambio (due concerti diversi per consentire a tutti di vedere il live, mantenendo la distanza di sicurezza), i tavoli che sanno di disinfettante e il ritrovare dei brani, come Laguna dei Pashmak che aveva scosso l’Ohibò all’epoca, in una versione concentrata e minimale. Che se non conoscete Damon e quel suo modo tutto naturale di portarvi tra le strade di Tangeri o Berlino con una semplicità disarmante e urletti cosmici, è ancora più difficile farvelo immaginare: questo concerto è stato in sintesi la prima luce in fondo al tunnel.
Sandra Vesely + Vincenzo Parisi @ Mare Culturale Urbano
E se le cose s’erano fatte nelle strane alla Corte dei Miracoli, tra l’utilizzo intesivo di Amuchina e vino rosso 12 euro la bottiglia, è stato ancora più strano ritrovarsi a Mare Culturale Urbano, il cui cortile s’è riempito di sabbia, sedie sdraio e camerieri vestiti da bagnini. Uno dei posti che più m’era mancato e che straripa di belle sensazioni che vi avevo lasciato dentro. Riprendono i live e sul palco ci sono Sandra Vesely e Vincenzo Parisi, entrambe personalità carismatiche, oscure e anche belle sfacciate, che in quest’atmosfera dalle prime beach vibes dell’anno, s’impongono con alcuni tra i progetti più interessanti dell’underground milanese: lei con il suo primo singolo Panopticon che prende spunto da artiste come PJ Harvey, Laurie Anderson, Diamanda Galàs (non proprio tra i nomi più estivi che possono venirvi in mente, insomma) e lui con il suo nuovo album Zolfo che hanno definito una cupa e stravagante suite in otto numeri (Robinson, La Repubblica). Ed in questo strano mondo, in cui si può si possono fare i concerti, ma non in troppi e non troppo appiccicati, quello di Sandra Vesely è Vincenzo Parisi è stato un importante contributo a rendere ancora più aliena, questa transizione in cui ci ritroviamo: l’oscurità su una spiaggia artificiale a Milano.
Working Men’s Club @ YES, Manchester (UK)
Come potete facilmente intuire dal titolo del paragrafo, il concerto in questione non si è svolto a Milano, bensì a Manchester. Ma, visto che ho avuto modo di seguirlo dall’afoso capoluogo lombardo grazie a DICE TV, ho ben pensato di fare la furbata e inserirlo lo stesso in questo bell’articolo di @morghiss.
Ora però arrivo al punto: i giovanissimi Working Men’s Club hanno spaccato in quel di Manchester. Una venue ovviamente vuota, dotata di multi-cam pronte ad alternarsi e a trasportare lo spettatore/ascoltatore in un viaggio di quasi un’oretta fra atmosfere post-punk e funk robotico. Una scaletta di 8 pezzi, fra brani già usciti come Valley, Bad Blood e Teeth ed altri inediti che faranno parte del debut A.A.A.A. in uscita questo autunno. La setlist è tirata, non c’è un attimo di tregua fra un pezzo e l’altro. Niente introduzioni, niente frasi di circostanza, niente ringraziamenti. Sul finale il cantante decapita il cartonato della Regina Elisabetta e poi mostra con un ghigno la t-shirt con su scritto “Socialism”: ho i miei dubbi che nel 2020 questa cosa possa essere vista come sovversiva o da ribelli, ma tant’è.
Ad ogni modo, in tempi di pandemia poter comunque assistere ad un bel concerto in remoto rimane una bella consolazione. Resta tuttavia il rimpianto di non essere fisicamente lì, fra la folla sudata, a ballare e magari pogare.
