Leggi band indie rock britannica proveniente dall’Isola di Wight e pensi subito alle Wet Leg. Ti aspetti canzoni con agganci melodici calamitanti e un atteggiamento strafottente. Invece, quando Jess Eastwood sale sul palco accompagnata dal resto dei Coach Party e si posiziona al centro con il basso, inizi a percepire una leggera differenza. Il suono compatto di What’s the Point in Life – traccia d’apertura del loro album di debutto KILLJOY – riempie la sala dell’Arci Bellezza di Milano. Le due chitarre suonate da Steph Norris e Joe Perry non lasciano buchi nel muro sonoro, se non quando quest’ultimo si diverte a creare dei vuoti con degli arpeggi effettati che rimandano agli Strokes.
Sono proprio gli Stati Uniti il punto di riferimento sonoro della band, nonostante in scaletta ci siano degli episodi rapidi che gettano lo spettatore nell’atmosfera claustrofobica di un locale inglese. Come, per esempio, Shit TV e Parasite – eseguita sul finale – che mette in risalto l’abilità alla batteria di Guy Page. È stato lui finora a curare la produzione degli EP e dell’album della band. Non sembrerebbe, perché sul palco, quello che si cimenta più di tutti con loop, pedaliere e tasti “strani” è Joe Perry. La sua chitarra è l’arma con cui i Coach Party prendono il volo verso l’America dell’indie rock dei primi Duemila. Be That Girl e All I Wanna Do Is Hate nei rispettivi ritornelli fanno sperare di poter presto vedere e ascoltare il gruppo su palcoscenici più ampi.

Ci sono anche momenti che sforano nel sound shoegaze con un’emotività più pura rispetto a molti altri pezzi. Born Leader è un brano da grande arena, con uno dei ritornelli più aperti e meno corrosivi del gruppo. E la resa dal vivo è soddisfacente, al pari di quella di Always Been You, un’altra delle canzoni più pop rock.
I Coach Party però non suonano e basta. Qua e là, forse per riprendere fiato da una setlist suonata quasi senza sosta, cercano di instaurare un contatto diretto con la platea. In questo sono molto inglesi. In particolare nello humor della frontwoman Jesse quando scherza con Steph. Oppure quando racconta aneddoti legati ai brani o alla sua vita. Come quando ricorda quel giorno in cui un fan, prima di un concerto, dopo essersi fatto una foto, le chiese un plettro e lei non lo aveva dietro. Un episodio che non ha nulla di speciale. Raccontato con l’ironia tipica e, soprattutto, dopo che ti si è appena spezzato un plettro mentre stai suonando, però fa tutto un altro effetto.

I Coach Party tengono alto lo stendardo delle band inglesi rock nate negli ultimi anni, sempre più caratterizzate da voci femminili. Non solo The Last Dinner Party, Wet Leg e Goat Girl (stanno tornando finalmente con il loro terzo album il prossimo 7 giugno) ma anche CRAWLERS. Abbiamo parlato finora di un gusto americano. Durante il concerto però c’è stato un attimo rivelatorio in cui i componenti della band hanno scoperchiato le loro origini. Si tratta di All My Friends. Un brano il cui incipit ricorda vagamente Damage Goods dei Gang of Four e che piano piano si trasforma e unisce tutte le loro influenze insieme. Sarebbe stata forse la conclusione perfetta del concerto e, invece, arriva un po’ prima. Ma, in fin dei conti, se ogni pezzo regala dei momenti sorprendenti e degli squarci melodici interessanti, poco importa. I Coach Party sono appena decollati.