Gli ultimi spicchi del sole delle 20 si disperdono tra le assi curve del Carroponte. I caratteristici faretti rossi che tracciano il perimetro del rettangolo di cemento che si estende dal palco hanno già incominciato ad accendersi, sebbene ancora ad intermittenza. Il numero degli spettatori sta aumentando a poco a poco, d’altronde è un caldo giovedì di luglio. Tra coloro che sfoggiano le t-shirt degli IDLES, c’è qualcuno che, come fosse un cosplayer di una fiera del fumetto, ha scelto di indossare una lunga camicia a fiori che quasi gli sfiora le caviglie. Mark Bowen è probabilmente la fonte d’ispirazione, è pure il suo compleanno. Meno male che il chitarrista inglese ha cambiato look in questo ultimo tour, altrimenti il rischio di avere quasi metà del pubblico con indosso solo un paio di boxer sarebbe stato concreto.
A colpire l’attenzione però è un ragazzo che si trova alla sinistra del palco, piuttosto vicino alle transenne: non molto alto, capelli scuri mossi e una t-shirt abbinata a dei bermuda. Un normale spettatore, se non fosse per il vistoso tutore nero alla gamba sinistra e la stampella alla quale si appoggia a momenti alterni. Lo stupore è controbilanciato da un leggero senso di paura. Ma ecco che salgono sul palco i tre giovani romani dei Calzeeni, band punk piena di energia. La tensione per essere stati scelti come unica band di apertura di tutte le quattro date italiane degli IDLES, si scioglie non appena risuona il primo accordo di chitarra. Prima dell’esibizione, il batterista del trio, Dimitri Nicastri, ex membro dei Prophilax, si aggira tra il pubblico: descrive un po’ l’atmosfera del dietro le quinte, racconta di un Joe Talbot super carico seduto al loro tavolo.
L’ultima volta della band di Bristol in Italia risale al 2018 e da allora sono passati quattro anni e due album. Il loro suono si è evoluto, qualche esperimento li ha resi più maturi senza intaccare la loro veemenza. Si parte come prevedibile con Colossus. Sembra che l’abbiano scritta apposta, luci spente, suono cupo di basso e chitarre scalfito dalla voce di Joe.
«Tender, violent and queer» sono i tre aggettivi che chiudono la prima strofa, perfetti per descrivere un loro live. Quando viene chiesto al pubblico se è pronto a scontrarsi nel cerchio vuoto del wall of death, il pensiero torna al ragazzo in stampella. È impossibile scorgerlo.
Seguono Car Crash, Mr Motivator e via senza pause, anche durante la stupenda The Beachland Ballroom, l’intensità emotiva sopperisce al rallentamento. Riuscire a non essere risucchiati dal pogo è un’impresa ardua: le canzoni in scaletta, la batteria instancabile di Jon Beavis e la goliardica partecipazione dei due chitarristi che a turno si gettano sul pubblico, fomentano la folla. Tuttavia, si percepisce una sottile differenza nel modo di pogare: c’è un sentimento comune, è un vero e proprio rito. Joe Talbot dal palco parla di amore e autodeterminazione prima di far sedere i presenti a terra durante I’m Scum. Si respira uno spirito di fratellanza e mutuo supporto, il pubblico è lì per esorcizzare le paure interiori, per fregarsene, per accettarsi. Ogni tanto c’è chi viene alzato dagli spettatori per un breve surf sulla miriade di mani tese al cielo, il più astuto riuscirà a farlo durante Danny Nedelko avvicinandosi a Mark Bowen mentre è anch’egli disteso sul pubblico per guidare lo spelling. Poco prima, durante Crawl, si assiste forse alla scena più potente: «Sì, tranquillo l’ho già fatto». Il tempo di voltarsi ed ecco che l’ennesimo ragazzo viene issato e fatto passare da una mano all’altra. Nulla di strano, finché non alza una stampella al cielo.
Quando parte Rottweiler gli spettatori si scatenano e sotto sotto si disperano, è risaputo che è la chiusura di ogni loro concerto. La lunga coda strumentale è asfissiante e rumorosa, tutti vi assistono da fermi, la leggera brezza serale riesce a penetrare tra le file di gente. Chissà come sarà stato l’atterraggio del ragazzo in stampella. In quel momento sarà stato anche lui con gli occhi fissi sul palco, oppure sullo schermo di un cellulare – ora si può tirare fuori per fare un video senza correre troppi rischi – con uno sguardo estasiato o viceversa perso nel vuoto. Quello stesso vuoto che si prova al termine di una catarsi collettiva. Nell’umidità dell’aria aleggiano i demoni dei presenti, pronti a tornare ad abitare le rispettive anime da cui per un’ora e quarantacinque minuti sono stati sputati fuori.