13 maggio 2014

Gli Strypes sbarcano a Bologna

Avete presente quelle feste di compleanno dove i genitori accompagnano i propri figli e poi rimangono a chiacchierare con altri genitori in attesa che la festa finisca e riportare i pargoli a casa? Ecco, l’atmosfera al concerto degli Strypes di sabato scorso al Covo di Bologna era all’incirca questa. Per chi non sapesse anche chi fossero gli Strypes (no, non i White Strypes come mi è capitato più volte di specificare ad altre persone) parliamo di un quartetto irlandese osannato da grandi nomi come Noel Gallagher e Paul Weller e che io, personalmente, ho visto per la prima volta lo scorso novembre in apertura degli Arctic Monkeys a Milano.

Impossibilitata a raggiungere il posto prima delle 22, lo scenario che si è prospettato per quell’ora è più o meno questo: coda fuori dal locale abbastanza lunga, una folta schiera di ragazzine schiamazzanti e circa ¾ di ragazzi con indosso una qualche t-shirt degli Arctic Monkeys più o meno recente. Finita l’interminabile fila (perché non è concerto se non fai almeno mezz’ora di coda per entrare, logicamente) e aver ricambiato saluti di persone che ti conoscono ma che tu non sai chi siano, si entra nel locale che – per chi non ci fosse mai stato – è DAVVERO un buco.

 

Quelli che suonavano prima, non so chi siano perché ho ascoltato tipo gli ultimi tre minuti

Complice forse anche la serata in sé che sarebbe proseguita con un dj set targato Cool Britannia, il locale è pieno zeppo e fa comunque piacere constatare che il target della gente presente è molto vario: la prima metà della sala, sotto al palco, pare essere occupata da ragazzini urlanti – alcuni giunti lì da parecchie ore prima dell’inizio del concerto – e dai fedelissimi, tutti ammassati; l’altra metà è quanto di più tranquillo io abbia mai visto, con una fascia d’età dai 20 ai 50 anni e tanto di quello spazio da poter giocare a curling senza problemi.

22:30, circa. Ci siamo, l’attrezzatura viene montata. Sforando un po’ con i tempi e andando appena oltre l’orario di inizio previsto, ecco comparire la band: camminano tra il pubblico, solite divise addosso, sguardo basso, occhiali da sole inforcati per il cantante Ross, salutano chi riescono beccandosi anche qualche coppino a tradimento (Josh così impari a fare il ganzo). Prime pennate, prime rullate e la serata ha inizio.

What A Shame apre le danze e la setlist si dispiega per circa un’ora e mezza tra le canzoni del loro primo ed unico album, Snapshot, e qualche cover ormai entrata in presenza fissa nel loro repertorio.  Seguono So They Say dal loro EP Track Mind, Lucky 7 e She’s So Fine e via via con pezzi più o meno conosciuti come Angel Eye, Mystery Man e Blue Collar Jane, personalmente le mie due preferite e live fanno sempre la loro porca figura anche se, forse, uno dei “problemi” di questa band è che la maggior parte delle canzoni ha quel ritmo, quel groove di base che le fa sembrare molto somiglianti tra di loro e questo, all’ascolto di un non habitué, rende un intero concerto da headliner un po’ noioso (highlight quote della serata, una mia amica che non li aveva mai visti prima e che “non riesco a capire se abbiano suonato più di una canzone o sia la stessa cosa da dieci minuti”, e c’hai ragione pure tu).

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La prima volta che ho visto questa band live è stata una piacevole sorpresa pur conoscendoli per poche canzoni: energici, giovanissimi con una tecnica e una bravura da far impallidire gente più esperta, presenza scenica impressionante su un palco enorme in un palazzetto strapieno. Già all’epoca, di bocca in bocca, i pareri a riguardo erano parecchio discordanti: c’è stato chi è rimasto estasiato dallo spettacolo fatto e chi li ha tacciati di esibizionismo e frasi come “se la tirano da morire” non sono state risparmiate. Il che potrebbe anche essere vero se l’attenzione viene focalizzata su Josh, il chitarrista della band che, diciamocelo, non è il massimo della sobrietà e naturalezza quando suona. Il bassista, Pete, è sempre un gran bel piacere da vedere: molto bravo non solo al suo strumento ma anche al microfono per un improvvisato scambio di ruolo che vede il cantante Ross non alla solita armonica MA sempre con i soliti sunglasses indoor.

Gli Strypes in crisi d’identità

Gente che balla, gente che canta, gente che limona contro i muri della sala, insomma c’è un gran bel daffare all’interno del Covo e l’atmosfera si scalda ulteriormente quando dopo scuse per il pessimo ed incomprensibile accento, lanci di plettri e asciugamani che manco Bellamy nei periodi di scazzo, una magistrale Rockaway Beach, cover dei Ramones, è il turno di Louie Louie, cover dei Kingsmen e della cosa più simpatica della serata: l’orgia di gente chiamata sul palco.

L’orgia al suo massimo, con la tipa che canta

La “colpa” è del bassista, uno dei pochi bassisti vivi della storia della musica, uno dei pochi bassisti che interagisce col pubblico arraffando un ragazzo dalla mitica front row agognata da tutti quanti (aka “avevo la transenna spalmata addosso, transenna... cioè quel pezzo di legno che stava là” cit.) e facendolo salire sul palco munito della sua AM’s tee per cantare con loro. Dopo un po’ sul palco ha iniziato a salire di tutto compresi i bodyguard della band che da soli occupavano tutto il palco oscurando la visuale.

Il concerto si conclude così, un po’ in caciara, in un’atmosfera festosa con il tour bus ad attenderli per portarli alla tappa successiva. Bravi son bravi, e anche tanto, sia in studio che live ed è evidente a tutti ma, ecco… magari cambiando abitudini del chitarrista i concerti risulterebbero meno imbarazzanti e sembrerebbero meno forzati.

Fuori dal locale le chiacchiere si sprecano: ascolto distrattamente i racconti dei alcune ragazze che erano sotto al palco, i discorsi di due ragazzi che parlavano della mostruosità tecnica di Evan, il batterista, uno scricciolo potentissimo e sorrido amaramente pensando di aver appena dato dei soldi a gente che ha l’età di mia sorella più piccola e che gira il mondo suonando in posti che a me non basterebbe una vita intera per poterli visitare tutti.