Nel variegato universo dell’indie rock americano, pochi artisti hanno saputo mantenere la coerenza e la profondità emotiva di Alex G, nome d’arte di Alexander Giannascoli. Cresciuto ad Havertown in Pennsylvania, Alex si è costruito nel tempo una solida fanbase grazie a un approccio al songwriting tanto intimo quanto tagliente, che lo ha visto emergere dai circuiti lo-fi casalinghi fino a diventare una figura centrale della scuderia Domino Records. Con album chiave come DSU (2014), Rocket (2017) e il più recente God Save the Animals (2022), il nuovo Headlights (2025) rappresenta una nuova tappa significativa del suo percorso: dopo nove album, il decimo è finalmente il primo ad essere pubblicato per una major, la RCA Records.

Headlights è un disco intrinsecamente notturno, come lascia intuire il titolo: un itinerario lungo una strada deserta, dove i fari dell’auto rischiarano a tratti ricordi sfuocati, sogni spezzati e paure appena accennate. A differenza del precedente God Save the Animals — che si distingueva per le sue manipolazioni vocali e una struttura più disgregata — il nuovo album di Alex G si presenta con un taglio più coeso e cinematografico. Non si tratta, però, di un ritorno alle origini lo-fi: è un lavoro meticolosamente prodotto, ricco di strati e sfumature, dove ogni elemento sonoro è collocato con precisione quasi artigianale.
Il disco si apre con June Guitar, che imposta subito l’atmosfera: arpeggi cristallini, un mandolino appena accennato e delicate armonie vocali femminili disegnano un paesaggio sonoro a metà tra l’indie-folk più crepuscolare e una forma di americana elegante e misurata. C’è una malinconia sottile nei testi, che si insinua sotto la superficie luminosa del brano, offrendo un’introduzione efficace al mondo intimo e rinnovato di Alex G. Segue Real Thing, che alterna melodie ovattate a chitarre sospese poggiate su un basso caldo e una batteria dal groove leggermente spezzato. Il testo, carico di ambiguità e autoironia, riflette sul conflitto tra idealismo artistico e logiche di mercato (“Hoping I can make it through… on whatever’s left of label cash”), toccando uno dei temi centrali dell’album: la tensione costante tra autenticità creativa e sopravvivenza professionale.
Afterlife, primo singolo estratto dall'album, è una riflessione intima sulla trasformazione e la maturità emotiva. Il brano si muove su un tappeto di mandolino e una batteria solida quasi springsteeniana, dal sapore vintage, che richiama il folk-rock degli anni ’70. Il ritornello, avvolgente e ripetitivo, agisce come un mantra, mentre la produzione – più nitida e spaziosa rispetto ai lavori precedenti – mette finalmente al centro una voce lucida e consapevole.

Con Beam Me Up, l’album si sposta verso territori più visionari: una ballata pop dalle tinte oniriche che intreccia strumenti acustici e synth pulsanti, costruendo un’atmosfera sospesa tra concretezza e delirio. Cori spettrali e texture elettroniche creano un effetto straniante, in perfetto equilibrio tra allucinazione digitale e narrazione emotiva.
Il quinto brano, Spinning, rappresenta l’apice psichedelico e orchestrale dell’album. Avvolto da archi digitali e bagliori sinfonici, il pezzo si muove in uno stato mentale sospeso, languido, quasi ipnotico. I riverberi profondi e le atmosfere rarefatte costruiscono un paesaggio sonoro cinematografico, intriso di immaginari surreal-folk che espandono la dimensione emotiva dell’ascolto. Con il pezzo successivo, Louisiana, si ritorna a una sensibilità americana più radicata: chitarra acustica ben presente, organo discreto e un tono da ballata da strada. È una canzone che parla di spostamenti – geografici, interiori – con una malinconia sottile e un approccio narrativo diretto. Il sound è immediato ma calibrato, capace di evocare viaggio e memoria senza cadere nei cliché.
Uno degli aspetti più affascinanti di Headlights è la cura della produzione, divisa tra lo stesso Alex e Jacob Portrait, bassista degli Unknown Mortal Orchestra, che aveva già collaborato nei due album precedenti. Il disco suona al tempo stesso caldo e vibrante, ma attraversato da interventi elettronici sottili e mai invasivi. Texture ambientali, glitch impercettibili, giochi di fase e layering vocali contribuiscono a costruire un paesaggio sonoro che sembra muoversi tra realtà e sogno, come se l’intero album fluttuasse in uno stato liminale.
Notevole anche il trattamento della voce, da sempre una cifra stilistica distintiva nel lavoro di Alex G. Pur non avendo un timbro particolarmente potente, Alex sfrutta il microfono con grande sensibilità: in Headlights alterna con naturalezza un falsetto fragile, passaggi parlati quasi meditativi e voci manipolate che richiamano le sue prime sperimentazioni in Trick (2012), ma con una consapevolezza tecnica e artistica molto più raffinata.

Il settimo brano Bounce Boy, rompe gli schemi e dà il via ad una svolta che continuerà per tutta la seconda parte dell'album: ritmi quasi industriali, un uso misurato dell’autotune e un groove ipnotico costruiscono una parentesi elettronica sorprendente ma del tutto coerente. La successiva Oranges si muove invece su coordinate folk-rock dal sapore agrodolce. Dietro una chitarra brillante e un’apparente leggerezza si nasconde un testo denso di metafore affettive, tra fragilità emotive e relazioni in bilico. Una canzone intima, cantata con voce pacata e carica di riflessione.
A seguire, Far and Wide, una ballata rarefatta e atmosferica, costruita su pochi elementi: archi sfumati e la voce di Alex in primo piano. La narrazione, sospesa e onirica, suggerisce un senso di vastità malinconica. La title track arriva come punto di snodo emotivo e simbolico. L’apertura lenta evolve in un crescendo orchestrale che accompagna un testo pieno di immagini suggestive: fari nella notte, paure sfocate, viaggi senza meta. Una traccia che sintetizza i temi centrali del disco e ne diventa quasi il manifesto poetico.

Nel penultimo brano, il tono si fa ancora più interiore. Una chitarra acustica, accompagnata da leggere sfumature ambientali, sorregge una voce trattenuta che sembra interrogarsi in silenzio. La chiusura, Logan Hotel, arriva in modo semplice ma potente: una registrazione dal vivo con la band al completo, realizzata attorno a un pianoforte in un hotel di Philadelphia. La dimensione performativa restituisce un senso di umanità e calore, chiudendo il disco con la sensazione che, dopo il lungo viaggio, si possa finalmente tornare a casa.
Headlights non è l’album destinato a rivoluzionare la carriera di Alex G – e, in fondo, non è nemmeno il suo intento. È piuttosto una prova di continuità evolutiva: la dimostrazione che si possono esplorare nuovi territori sonori restando fedeli alla propria voce interiore. Se God Save the Animals era un disco attraversato da domande irrisolte, immerse in una nebbia di sperimentazioni e inquietudini spirituali, Headlights sembra invece accoglierle con quieta rassegnazione, senza cercare risposte, ma mantenendo lo sguardo rivolto in avanti. Come fari nella notte americana, non mostrano tutta la strada, ma illuminano abbastanza per permettere il prossimo passo.