The Twits bar italia
6.4

Nel nostro Paese i bar italia sono diventati una band cult, una di quelle di cui magari non ricordi neppure i titoli delle canzoni o degli album, ma di cui non esiti a parlare con chiunque ogni qual volta il discorso lo consenta. Un fenomeno musicale di nicchia sbocciato la scorsa primavera dopo la pubblicazione dell’album Tracey Denim. Perché il trio londinese composto dalla cantante italiana Nina Cristante, da Jezmi Fehmi e Sam Fenton sia esploso in maniera considerevole dopo il terzo album, senza alcun preavviso, è una domanda dalle molteplici risposte.

La prima rientra ovviamente nell’ambito musicale: il loro suono è distante dall’ondata rock e new wave inglese degli ultimi anni. I tre attingono molto di più dall’universo sonoro statunitense anni Novanta. Le altre motivazioni risiedono nel contorno. L’alone di mistero che aleggia attorno alla loro identità, ormai svelato, ha incrementato l’interesse, così come il fascino del nome. I bar italia rientrano in quella cerchia ristretta di band che hanno il nostro Paese nel nome. Su tutte gli Italia 90 che con il nostro Paese hanno ormai un rapporto strettissimo.

A pochi mesi dalla notorietà ottenuta, i bar italia sono tornati con il nuovo album The Twits. Registrato nel febbraio del 2023 in circa otto settimane in uno studio improvvisato di Maiorca e mixato ancora una volta, come il predecessore, dalla nostra Marta Salogni (Depeche Mode, black midi e molti altri), il disco è il proseguimento della strada intrapresa ormai da anni dal trio.

(c) Steve Gullick

Ci sono due scuole di pensiero riguardo alla pubblicazione ravvicinata di due album di inediti. Da un lato sembra legittimo sfruttare al massimo il momento, sia per la notorietà, sia per dare sfogo a un’ispirazione senza freni. Dall’altro c’è il forte rischio di lasciarsi trascinare dall’entusiasmo senza rendersi conto di essere risucchiati nel circolo vizioso della ripetitività. I primi due singoli estratti mostrano entrambi i lati della medaglia. My little tony riprende gli stilemi alternative rock anni ’90 degli album precedenti, aggiungendo un tocco melodico in più e una costruzione più organica e classica del pezzo che si avvicina per durata e struttura a una canzone tradizionale.

Jelsy, invece, prende corpo da un ritmo di chitarra acustica dall’animo country blues al quale è abbinato un fraseggio di chitarra elettrica nel ritornello cantato dalle voci maschili della band. Il testo è un dialogo tra due protagonisti intrappolati in una relazione complicata che non porta ad alcuna conclusione, se non a un’interessante incursione di una tastiera elettronica nella coda.

Il principale difetto di The Twits, oltre all’eccessiva lunghezza, è la sensazione di attesa che genera nell’animo dell’ascoltatore per la maggior parte del tempo. Brani come Real house wibes (desperate house vibe) o calm down with me colpiscono subito per un aspetto interessante: che sia un riff di chitarra elettrica o una trovata a livello ritmico, si genera un’aspettativa che viene puntualmente delusa. Il pezzo non esplode mai e si mantiene sulla stessa linea.

Un esempio lampante è glory hunter. Posta più o meno al centro della tracklist, grazie al basso e alle sinuose note di chitarra elettrica, è una boccata d’aria fresca. Tuttavia, dopo un minuto circa, ecco che di nuovo i bar italia si rifugiano negli accordi shoegaze e l’esile modo di cantare di Nina torna ad affossare la melodia. Per di più, come accade in quasi tutte le tracce, ancora una volta c’è lo stacco netto del finale, come a voler sottolineare che basta così. Non ci sarà alcuna soddisfazione.

(c) Steve Gullick

Questo continuo gioco musicale al gatto col topo diventa più mite nei pezzi più lenti e danzabili. Nella ballata atipica twist è piacevole farsi cullare dagli arpeggi di elettrica e sentirli poi appiattirsi nel fuzz del ritornello. In questo caso la voce di Nina, accoppiata al cantato drammatico e più armonico di Jezmi Fehmi, crea dinamismo e favorisce l’evolversi della narrazione.

È anche vero che ci sono pezzi rock più veloci che funzionano e proprio grazie ad essi, comunque, si viene spinti a continuare l’ascolto. Il singolo worlds greater emoter mescola un ritmo di batteria insistente a una chitarra che prende sempre più corpo col passare dei secondi. Ci troviamo nel territorio dei Radiohead di Hail to the Thief, almeno fino a quando nel finale subentrano la voce di Nina e la distorsione assume dei connotati più dark. Il brano che funziona maggiormente da questo punto di vista è Hi fiver, uno dei momenti più piacevoli del disco. Finalmente la linea melodica costruita dalla chitarra viene assecondata dal cantato e da vari crescendo. Grazie al sound shoegaze il canto di Nina acquista delle sfumature inedite e piacevoli e regge il confronto con quello di Sam Fenton.

Oltre alla già citata anima dark, che quando prende il sopravvento conferisce un tocco new wave ossigenante, è la tecnica dei bar italia a rendere degno di interesse The Twits anche nei momenti meno esaltanti. C’è un dittico di canzoni, poco prima della metà del disco, che colpisce in senso positivo. Shoo è un brano cupo, costruito su basso, chitarra acustica e sul canto quasi sussurrato di Nina Cristante. Gli echi dei Sonic Youth sono evidenti, ma svaniscono nell’assolo finale di elettrica che lascia spazio a un inedito pianoforte.

Segue que suprise caratterizzata da una linea di basso ancora più ipnotica e dalle dissonanze di tastiera che accompagnano le voci di Jezmi Fehmi e Sam Fenton. L’atmosfera creepy, perfetta per il mese di novembre, è frutto di grande tecnica, la stessa che si nota dal vivo. Tuttavia, come avviene qualche volta ai loro concerti, la loro freddezza contagia anche la ballabilità di certi pezzi. Un senso di incompiutezza che sembra cercato, come se i bar italia ci stessero trollando. Come quando que suprise ci fa credere di essere arrivata al momento culmine, quello dove il pathos raggiunge i massimi livelli, e invece il brano viene troncato di netto.

Su quindici tracce i riempitivi sono diversi, troppi: Brush w Faith e bibs su tutti. C’è però un momento rivelatorio, una luce improvvisa in fondo al tunnel, poco prima della già citata sorprendente Jelsy. Quando partono il suono ovattato e shoegaze delle chitarre, il basso malinconico e la batteria appena accennata di sounds like you had to be there è come affacciarsi dalla finestra e scoprire che hanno iniziato a schiudersi i primi bottoni floreali e che la primavera si sta avvicinando. La malinconia trasmessa dalla melodia agisce, in funzione del resto dell’album, in maniera opposta e suggerisce speranza. La stessa che si prova al primo ascolto: speranza che il pezzo prosegua ancora, non cambi strada improvvisamente e non venga troncato.

È commovente poi riascoltarlo di nuovo, una volta che si è sicuri di non essere ingannati. E allora si notano i dettagli. La voce eterea, finalmente, di Nina, il canto straziante di Fehmi, la chitarra acustica che entra dopo il primo ritornello – sì, c’è un ritornello – e le carezze delicate del basso. C’è persino un momento di pathos, poco prima del finale, quando la voce femminile diventa un sussurro.

The Twits forse è arrivato troppo presto, ammesso che ci sia un momento ideale per pubblicare un disco. I bar italia nel nuovo album fanno quello di cui sono maggiormente capaci e il più delle volte è proprio questo il problema. La lunghezza dell’album non gioca a loro favore. Per gran parte del tempo è come se ci fosse un vetro appannato dietro al quale è difficile penetrare con lo sguardo. A qualcuno piacerà quel senso quasi indefinibile di incompiutezza che sembra pervadere ogni loro brano, ad altri meno. È pure vero però che il trio non è un prendere o lasciare, perché in vari tratti del disco mette d’accordo tutti. Sono quei momenti in cui i bar italia prendono il sentiero meno tortuoso e abbracciano una semplicità non banale, costituita da un groove appena accennato e ritmi ballabili. D’altronde, non è forse movimento danzante il rock?

(c) Steve Gullick