Sono tredici gli anni trascorsi da quello fatidico durante il quale avvenne l’incontro virtuale tra Justin Vernon e Aaron Dessner. Tutto nacque su MySpace: su quello che allora era il social più importante del pianeta, i due artisti si scambiarono idee e strumentali. Successivamente la fondazione del collettivo indipendente PEOPLE e i primi festival insieme in giro per il mondo, fino all’esordio discografico nel 2018 con il self-titled Big Red Machine. Il 2021 ci regala il loro secondo album, scritto a cavallo degli ultimi due anni e pieno zeppo di collaborazioni illustri.
How Long Do You Think It’s Gonna Last? è un album che nulla ha a che fare con quanto i Big Red Machine ci avevano mostrato e fatto ascoltare finora, alla ricerca sperimentale che mescolava elettronica, rock, folk e indie, si sostituisce una semplicità ragionata che sa di libertà e consapevolezza. Ad un primo impatto è libertà forse il termine più azzeccato per descrivere questo disco. Il leader dei Bon Iver e il chitarrista dei National si lasciano trascinare da tutte le emozioni e le sensazioni che negli ultimi due anni hanno alimentato la loro vita e arricchito di conseguenza la loro esperienza. L’obiettivo dei Big Red Machine sembra non essere più quello di ricercare il sound inaudito e speciale, ma semplicemente di tramutare in musica tutto quanto ha attraversato la loro esistenza in questo ultimo periodo.
Le linee tematiche sono molteplici, così come i generi che si intrecciano, si mescolano e si adattano ad ognuno dei numerosi protagonisti. Nell’ora di ascolto ci si imbatte in brani indie-folk, vicini al pop ma raffinati come Mimi, o persino in canzoni chitarra e voce come The Ghost of Cincinnati. Quest’ultima rientra in quel ristretto gruppo di tracce dove è Dessner a cantare, tra le quali spiccano anche Magnolia e Brycie: la prima risente molto dell’influenza della band di appartenenza del chitarrista ed abbina splendidamente la drum machine elettronica agli arpeggi di chitarra, la seconda invece è uno dei pezzi più sentiti ed emotivi dell’intero disco.
You take me high, you lay me low
You know my thoughts before I know
I wore it out, you wore me down
You watched my back when we were young
Brycie è il nomignolo che sta per Bryce, fratello di Aaron, anche lui membro dei National, al quale è dedicato questo toccante ringraziamento.

Ascoltare How Long Do You Think It’s Gonna Last? è come sfogliare un raccoglitore stracolmo di varie cose, foto provenienti dal passato, ricordi, cartoline; si alternano i pensieri e le suggestioni dei due componenti della band, talvolta singolarmente (come già visto per Dessner), altre volte intersecandosi. Sono molte di più le tracce in cui l’impronta di Vernon è preponderante, brani che potrebbero benissimo entrare a far parte di uno degli album dei Bon Iver. Reese è uno di questi e uno dei più convincenti dell’intero disco: sorprendenti le intrusioni degli ottoni, che rimandano alle atmosfere di i,i, meravigliose le frasi sognanti della chitarra elettrica che subentrano negli ultimi minuti.
Accanto all’utilizzo sempre azzeccato e saggio dell’autotune, Justin Vernon crea un vero e proprio tappeto musicale che dà organicità all’intero disco, nonostante la grande varietà di generi. Attraverso il pianoforte, una costante in quasi tutte le canzoni, si genera una base solida e spesso emozionante. Riprendendo la metafora del paragrafo precedente, se le canzoni rappresentano i ricordi e gli eventi, gli accompagnamenti di piano possono essere considerati come le bustine nelle quali essi sono conservati e mantenuti vivi. 8.22am, cantata dalla stupenda voce di Ariel Engle (La Force), abbina alla perfezione il pianoforte alle incursioni armoniche in autotune di Justin ed è una delle migliori prove del disco.

Una delle cause delle continue escursioni nei vari territori musicali è ovviamente la presenza dei featuring che, quando presenti, danno un’impronta evidente alla canzone. Gli ospiti sono molti e illustri, Ben Howard, Fleet Foxes, Anaïs Mitchell e Naeem sono solo alcuni di essi , tutti capaci di rendere personale ciò che toccano.
La collaborazione più discussa e attesa era senza dubbio quella con Taylor Swift. Renegades è stato il secondo singolo pubblicato ed è un brano pop che si distanzia molto dallo stile dei Big Red Machine e che alla sua uscita ha subito messo in chiaro la natura mutevole che avrebbe assunto questo secondo album. Novità però non è per forza sinonimo di snaturamento, questa quinta traccia è una delle migliori dell’intero disco soprattutto da un punto di vista lirico. Il cantato e la scrittura di Taylor Swift si sposano alla perfezione con la base. Il testo è una narrazione accorata della difficoltà di mantenere stabile una relazione con qualcuno che ha problemi di salute mentale e descrive alla perfezione l’ambivalenza ossimorica dei sentimenti che si susseguono.
Birch è il secondo featuring con Taylor Swift che qui duetta nel ritornello con la voce di Justin Vernon. Protagonista è il pianoforte che, grazie ancora una volta alle incursioni degli ottoni, genera un’atmosfera nostalgica che si lega perfettamente al tema della canzone.
The way I wake up now
Is a brand new way
And no it ain't that way, it was before
La rinascita dopo un lungo letargo. La betulla, pianta che dà il titolo al brano, è nella cultura celtica simbolo di rinnovamento, protettrice del nuovo anno e di ogni inizio.

Sfogliare il raccoglitore dei Big Red Machine vuol dire imbattersi in un passato che ancora esercita un'importante influenza sul presente e sui tempi futuri. Un passato reale e tragico come quello che ha ispirato Dessner nella scrittura di Hutch, canzone dedicata al cantante dei Frightened Rabbits, Scott Hutchinson, morto suicida nel 2018. Le domande si susseguono al ritmo di una ballata che solo a tratti riflette la tragicità e il rimpianto delle parole del testo, rendendo uno dei brani più tristi del disco quasi una preghiera. Il senso di colpa che emerge qui crea un curioso contrasto con la traccia precedente, Easy to Sabotage.
Don't let nobody tell you that they don't love you
You go the other way around
La chitarra pizzicata convulsamente e poi distorta nel finale, il ritmo incalzante della drum machine, il cantato elettronico ed eclettico di Naeem che si lega alla perfezione con quello di Justin Vernon, sono tuti gli elementi che concorrono al clima di speranza di questo nono brano. Una canzone che parla del coraggio di cambiare strada e di continuare ad andare avanti. Lo ripetono più volte i due, tra miliardi di effetti, componendo la frase completa frammento dopo frammento, come a sottolineare la difficoltà del processo «I’m, I’m gonna, I’m gonna keep, I’m gonna keep going, I’m gonna keep going». La vicinanza allo stile dell’ultimo album dei Bon Iver è impossibile da trascurare, ma poco importa se Easy to Sabotage potrebbe fare coppia con Faith, anzi. Uno dei brani imperdibili dell’album.

Il raccoglitore contiene al suo interno anche immagini che, abbinate ad una dose massiccia di malinconia, conservano nei loro colori sbiaditi un po’ di quella felicità vissuta in passato. New Auburn è un viaggio in macchina piano e voce (quella di Anaïs Mitchell) che suscita ricordi, Latter Days è un groviglio di episodi ed emozioni: tutta la nostalgia dell’infanzia raccontata attraverso flashback di abbracci, promesse, dialoghi rubati sulla riva di un fiume e sogni “selvaggi” ad occhi aperti lunghi sul letto. Questa prima traccia, sebbene scritta nel 2019, prima della pandemia, con quel verso che ha poi dato il titolo al disco, esprime in maniera sconvolgente il pensiero che ha abitato, e abita tuttora, la nostra mente. Quanto durerà?
Ascoltare questa canzone oggi dimostra per l’ennesima volta come la percezione di una qualsiasi opera d’arte sia influenzata dal contesto che circonda l’osservatore, o l’ascoltatore in questo caso, nel momento della fruizione. Latter Days sembra oggi un racconto post apocalittico, uno di quelli che nel romanzo The Road di Cormac McCharty il bambino chiedeva insistentemente a suo padre.
«A volte il bambino gli faceva domande sul mondo, che per lui non era nemmeno un ricordo. L’uomo rifletteva a lungo su come rispondere. Non c’è nessun passato. A te come piacerebbe? Ma poi smise di inventarsi le cose perché neanche quelle erano vere e raccontarle lo faceva star male. Il bambino aveva le sue fantasie. Come sarebbe stato nel Sud. Altri bambini. Lui cercava di tenerle a freno ma senza troppa convinzione. E chi al posto suo?» (tratto da Cormac McCharty, La Strada, Einaudi 2006, traduzione di Martina Testa).

How Long Do You Think It’s Gonna Last? è un secondo album che, considerate le enormi differenze rispetto al primo, lascia interdetti ad un primo ascolto. La prima impressione, soprattutto in chi è un amante dello sperimentalismo al quale ci ha abituato la band, sarà una fastidiosa sensazione di “compilation”: brani di diverso stile, un po’ Bon Iver, un po’ Taylor Swift e qualche spruzzata di National. Tuttavia, già al secondo tentativo, sarà incredibile la soddisfazione nel constatare il fil rouge musicale e lirico che unisce le varie tracce a dispetto dei vari generi e delle diverse voci che si susseguono.
I was trying to find my way
Inizia così il ritornello di Phoenix, la canzone in collaborazione con i Fleet Foxes che più di ogni altra riflette la natura dell’album, sia per quanto riguarda l’aspetto musicale che lirico. Nel terzo singolo estratto ritroviamo ogni elemento di cui si è già parlato in precedenza, tant’è che Aaron Dessner, riferendosi al sound di questa canzone, l’ha definito come quello che, in origine, si augurava potessero avere i Big Red Machine. Il testo fa il resto, il dialogo tra Justin e Robin Pecknold ricalca i temi dell’incertezza e del cambiamento.

I Big Red Machine hanno dato corpo ad un album fotografico oltre che musicale, azzeccatissima in questo senso la scelta della cover del disco, che si può scorrere in ordine oppure saltando qualche pagina: non si avvertirà alcuna mancanza. Generalmente questo dovrebbe rappresentare un aspetto negativo parlando di un disco, ma nel caso specifico è uno dei pregi maggiori. Certo, non manca qualche trascurabile passo falso (menzione particolare per Hoping Then, brano che momentaneamente al sottoscritto risulta ostico e poco convincente ma che ha tutte le carte in regola per “crescere” col tempo), ma nel complesso c’è ben poco da recriminare. Ogni canzone nasce da uno stimolo emotivo apparentemente casuale poi tradotto in musica, lasciando libero spazio all’emozione. Ecco, How Long Do You Think It’s Gonna Last? è un collage variopinto di sollecitazioni emotive.