The Ballad of Darren Blur
8.2

Le reunion portano sempre con sé un alone di nostalgia che allarga lo stomaco, illudono il cuore che si possa ritornare ai fasti del passato e che sia possibile finalmente rivivere le emozioni degli anni andati che sono sempre i migliori. Quasi fosse una legge non scritta del rock, o meglio, della musica in generale. Nella maggior parte dei casi l’effetto dura giusto il tempo di rendersi conto che è il 2023 e che gli anni Novanta suonano vecchi come la musica spacciata per nuova che stai ascoltando.

La foto scattata da Martin Parr nel 2004, probabilmente la copertina dell’anno, ritrae un nuotatore nella piscina salata di Gourock in Scozia. Ancora il passato. Anche per i Blur, soprattutto ripensando al non entusiasmante The Magic Whip (2015), tutto faceva pensare al solito ritorno riscaldato; invece The Ballad of Darren è tutta un’altra storia, una storia nuova.

(c) Reuben Bastienne-Lewis

Descritto come un aftershock, un resoconto sul momento presente vissuto dalla band, il nono album della band inglese è nato nel 2022 durante il tour dei Gorillaz. L’instancabile Damon Albarn in questi anni non si è mai fermato, tra un album solista e ben tre lavori inediti con la band animata. Gran parte delle canzoni sono state scritte in hotel, davanti a un murales di Leonard Cohen che ha ispirato la breve traccia acustica The Everglades (For Leonard). Una ballata con chitarra acustica che si riempie via via del suono orchestrale degli archi e che ricorda The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows (2021). Tuttavia The Ballad of Darren non è un album solista di Damon Albarn: il frontman ha voluto che tutti i membri della band collaborassero alla rielaborazione delle 24 demo. Tra gennaio e maggio, negli studi di Londra e Devon, sono nate definitivamente le dieci tracce del disco.

I just looked into my life
And all I saw was that you're not coming back

I primi due versi del disco che aprono The Ballad esprimono i motivi e le sensazioni che si respireranno nei restanti minuti. Il pianoforte accompagna la voce drammatica di Albarn che dopo venti anni è riuscito a completare Half a Song: qui entra in scena Darren (Smoggy), guardia del corpo del frontman che dà il titolo al disco che da tempo chiedeva al suo assistito di completare il brano. Si tratta di un inizio inaspettato, lontano dalle chitarre dei Blur che tutti si aspettavano. Lo sguardo è rivolto sì all’indietro, ma le lenti utilizzate sono quelle del presente.

Il momento rock, uno dei pochissimi, arriva con St. Charles Square, secondo singolo estratto. La chitarra di Graham Coxon inacidisce l’ambiente con dei fraseggi distorti, mentre basso e batteria ergono un muro sonoro e ritmico. La voce di Damon Albarn sembra trovarsi a proprio agio nella piazza: non è Cracker Island, ma un luogo di passaggio reale dove la band fa i conti con i fantasmi del passato.

ionicons-v5-c

Il cuore del disco, come si conviene, è al centro della tracklist. The Narcissist ha segnato il ritorno della band lo scorso maggio. Un’autoanalisi allo specchio, al ritmo sostenuto della batteria di Dave Rowntree che simula il battito cardiaco di un cuore in pena. Le parole del testo hanno un duplice valore: potrebbero far riferimento al doloroso divorzio vissuto da Damon e allo stesso tempo alla voglia di ricominciare della band. «But I won't fall this time / With Godspeed I'll heed the signs» lesina sulle dipendenze sentimentali e non solo che scaturiscono dai traumi vissuti. Errori nei quali sono caduti in passato Albarn e Coxon – non è un caso il botta e risposta delle voci dei due – e in cui promettono di non ricadere questa volta. Il suono della chitarra e del basso va in crescendo fino al finale rumoroso che sfuma con la drum-machine. Una delle canzoni più belle dei Blur dai tempi di 13.

Il dialogo cantato è protagonista anche nella penultima traccia Avalon. Un brano che getta l’ascoltatore in un’atmosfera onirica. Il tempo è ancora una volta quello di una ballata, i suoni sono quelli di una canzone lounge-rock degli anni Settanta con la chitarra di Coxon intervallata dal pianoforte. L’isola delle mele non è solo un luogo mitico, non è solo l’isola dove si troverebbe il Sacro Graal, ma è uno stato mentale.

I have lost the feeling that I thought I'd never lose
Now where am I going?

La perdita e il superamento del dolore è il tema sul quale lesinano tutti i brani dell’album e attorno al quale girano gli accordi e le melodie della band. Barbaric è uno degli episodi più piacevoli del disco: il mood danzereccio costruito sul basso di Alex James si sposa con la malinconia struggente del testo, creando un contrasto irresistibile. Si percepisce il sentimento disilluso di Think Thank unito alla spensieratezza cosciente dei Blur di metà anni Novanta.

La risposta alla malinconia è il ballo, in tutte le sue forme. La ballata spesso diventa d’altri tempi, regolata dal violoncello e da una produzione inedita. Dopo il ritorno nel 2015, a Stephen Street, storico produttore della band fino al self-titled album, subentra il peso massimo James Ford. La sua mano si sente nei ritmi cadenzati e nello stile lounge di molti brani: Russian Strings, ancor più del brano d’addio Far Away Island, sembra uscita dalle sessioni di registrazione di The Car degli Arctic Monkeys. La voce di Damon Albarn si colora di nuove sfumature ed emerge più nitida sui fraseggi di chitarra e pianoforte. Una nuova veste per i Blur, un esperimento riuscito che dà respiro a una band che sette anni fa sembrava impantanata in un passato ingombrante.

ionicons-v5-c

Il matrimonio migliore tra lo storytelling nostalgico di Damon Albarn e la produzione di Ford si celebra nella stupenda Goodbye Albert. Gli arpeggi piagnucolanti della chitarra di Coxon si aprono in pieni accordi distorti nel ritornello per poi tornare in un breve assolo nel finale. Sullo sfondo una batteria non ingombrante, un basso della cui presenza ci si renderebbe più conto nell’assenza e dei synth in lontananza. Un esempio magistrale di essenzialità, pop alternativo ad alto tasso emozionale che elogia l’addio: la lontananza che cicatrizza le ferite, pur non scacciando del tutto i dubbi.

Il disco si chiude con un brano dal sapore britpop, forse l’unico esempio. In The Heights Damon Albarn si rivolge a qualcuno del pubblico che si trova in fondo e promette che un giorno saranno in prima fila l’uno accanto all’altro. Chitarra acustica ed elettrica dettano il tempo dell’ultima ballata. L’augurio è che il distacco sia momentaneo e che il tempo che passa non esaurisca le speranze. La musica si fonde con la vita, come sempre dovrebbe essere. L’esistenza è il parterre di un concerto dove il pubblico è in costante movimento, le posizioni possono cambiare, si può passare dall’ultima alla prima fila nel tempo di uno sguardo.

The Ballad of Darren si chiude con un rumore distorto che man mano diventa più intenso che tuttavia non copre mai del tutto la melodia in sottofondo. Poi il buio. Il ritorno dei Blur si consuma nell’album più breve, intenso e personale della loro discografia. La band inglese sceglie la strada meno scontata, non si rifugia nei suoni rassicuranti di un passato che non tornerà più. Il presente ha la stessa consistenza delle nuvole grigie che minacciano il nuotatore solitario sulla copertina del disco, il sapore della malinconia e il retrogusto della nostalgia che porta con sé sempre un filo di speranza. La risposta è la danza. Che essa segua il tempo sostenuto di una canzone rock o il ritmo rilassato di una ballata, non importa. L’importante è non stare fermi.