Ogni volta che esce un disco nuovo dei Calibro 35 c'è sempre quell'aura di specialità che altri supergruppi non riescono mai a trasmettere o a raggiungere. Vuoi perché i quattro milanesi hanno un notevole gusto per l’esplorazione, vuoi per il piacere di suonare (e soprattutto di farlo assieme), vuoi perché si vede che non si riuniscono tanto per farlo ma hanno quella necessità prima amicale - e solo successivamente professionale - che nel mondo discografico odierno rappresenta veramente un unicum al quale non siamo più tanto abituati. Sono un po' di anni che la loro musica sta svoltando verso derive più jazzate. Non che prima questa attenzione non ci fosse ma, negli ultimi lavori, il gusto per le colonne sonore sta dialogando in maniera sempre più attenta e sinergica con le variazioni tecniche e stilistiche, cercando comunque di non perdere mai in immediatezza.

Exploration, questo il titolo dell'ultimo lavoro, incarna alla perfezione il sentire attuale di Colliva, Gabrielli, Martellotta e Rondanini. Se in 18 anni di carriera non hanno mai deluso le aspettative è anche perché i Calibro 35 hanno giocato costantemente sulla contraddizione fra coerenza ed eclettismo, fra rigore esecutivo e libertà creativa. Anche Exploration incarna bene tutti questi aspetti complessi e apparentemente inconciliabili. Elementi che permettono alla band di essere sempre sul pezzo e di rendere appetibili dei suoni che, magari, in quel momento, nessuno può pensare possano ancora suscitare qualcosa alle orecchie dei loro ascoltatori. Per fare un esempio più immediato e tangibile (per quanto possibile quando si parla di musica strumentale) in Coffy is the Color, brano originariamente composto da Roy Ayers per l'omonima pellicola del 1973 firmata da Jack Hill, il funky “pulito” della versione originale diventa acidissimo, sintetico. Per la voce, trattata con il vocoder, si spazia in universi cyberpunk senza perdere mai il contatto con il resto del disco, che appare comunque consonante e mai slegato tra i vari brani che lo compongono. L'unico caso nel quale il salto è forte e potente è il momento dell'avvicendamento tra Chameleon e il famosissimo tema di Mission Impossible. La prima ha un suono archetipico, seminale. Da Herbie Hancock, sempre anno di grazia 1973. È un pezzo che non dà un attimo di respiro e vaga tra il rumorismo e l'allucinogeno. Sei minuti nei quali pare non vogliano smetterla di suonare.
Exploration ha undici tracce (di cui tre originali) e ha segnato anche il ritorno alla label indipendente Record Kicks. Se due anni fa la fatica Nouvelles Aventures, pubblicata da Universal Music, voleva essere un tributo allo spirito avventuroso del gruppo, Exploration rappresenta, invece, un ideale sviluppo di Jazzploitation, il precedente EP. Le volontà, lungo tutto il lavoro, sono tangibili e l'obiettivo è presto detto: prendere materiale altrui e farlo proprio. Come avrete potuto capire, sotto torchio ci sono i classiconi anni '70-'80 delle colonne sonore che hanno fatto la storia del cinema e della televisione. In questo, Nautilus di Bob James, pezzo fondamentale nella definizione di un certo groove anni ’70 e ricampionato innumerevoli volte da tutti i giganti dell’hip hop, viene interpretato dai Calibro 35 in atmosfere più ambient, con la batteria di Rondanini che dà il meglio di sé. Un altro grande omaggio è quello tributato a Piero Umiliani. Gassman Blues (voluto da Mario Monicelli per I soliti ignoti) non ha bisogno di presentazioni. Linea tematica unica con variazioni continue che si lega sentimentalmente a Discomania, un altro esperimento tratto dalla composizione di Umiliani della storica sigla di coda di 90° Minuto.

Non mancano rivisitazioni dalle tinte profonde con Jazz Carnival degli Azymuth, mentre un discorso a parte merita Lunedì cinema, vera chicca "celata" dell'album. Tratto da una sigla televisiva composta da Lucio Dalla, i Calibro scritturano Marco Castello, che in quest'occasione riporta lo scat in versione nu jazz. Come tutti i viaggi di scoperta, l’esplorazione non è però soltanto un movimento verso l’altro ma è anche un movimento verso se stessi. La più riuscita delle tre composizioni originali è The Twang, un brano dalle mille evoluzioni, che si apre con una chitarra tarantiniana, prosegue sui territori della psichedelia ed esplode nella sezione finale caratterizzata dai fiati. La chitarra è la più I Hate My Village possibile, "viterbiniana" e il mondo afrobeat permeato dall'elettronica si rivela un connubio vincente.
Il disco, in generale, si muove su lick che hanno fatto la storia delle colonne sonore, che potevano non essere funzionali al jazz dei Calibro 35. In questo caso, la maestria è stata tutta nell'adattabilità di questi brani, che diventano a tratti lisergici, ricchi di spunti quando non completamente rivisitati ma mai stravolti alla radice. Quello che colpisce arrivati a neanche metà album è la loro spontaneità nel suonare così bene. È un disco pieno, orchestrato in maniera completa e, quando si finisce l'ascolto, si ha la consapevolezza di essersi fatti una scorpacciata di ottima musica.