Che l’album dei caroline sarebbe stato qualcosa di diverso e speciale l’ho capito ascoltando il primo singolo Total euphoria, quando ancora il disco non era stato ufficialmente annunciato. Tant’è che la paura di rimanere poi deluso non era indifferente. Capita spesso che un progetto tradisca le aspettative del singolo di lancio. Nonostante sia stato scritto nel 2020, durante i lavori sul debutto, il brano che apre caroline 2 prende una strada inedita. Più melodico e armonico, pesca a piene mani dal post-rock di fine anni Novanta e inizio Duemila, aggiungendo però quel tocco in più, con archi e cori, tipico della new wave britannica di quest’ultimo decennio.

Gli otto componenti del collettivo londinese - Casper Hughes, Jasper Llewellyn, Mike O’Malley, Oliver Hamilton, Magdalena McLean, Freddy Wordsworth, Alex McKenzie e Hugh Aynsley – dal loro primo selftitled di debutto hanno continuato a sperimentare e tentare soluzioni, ogni volta sempre più estrose. Dal mondo pastorale del debutto sono arrivati alla loro versione migliore.
In caroline 2 gli esperimenti si susseguono brano dopo brano. Prendete Song two: nata come un brano “normale” con chitarra, batteria e voce con autotune e diventata poi un insieme di sax, clarinetto e basso. La stratificazione degli strumenti non le toglie il carattere improvvisativo che contraddistingue la maggior parte delle canzoni del gruppo. Improvvisazione e ciclicità che potrebbero far durare un singolo brano anche venti minuti senza di fatto stancare l’ascoltatore. Gli stessi membri hanno raccontato che così hanno scritto Total euphoria. Talvolta chiedendo persino troppo, come nel lungo interludio When I get home che introduce idealmente la seconda sezione del disco. Dopo un inizio acustico, a mano a mano subentrano tutti gli elementi. È il pezzo più vecchio, un brano che la band eseguiva dal vivo senza una traccia, con ogni componente ad aggiungersi minuto dopo minuto.

A proposito di sperimentazione, questo insieme al singolo Coldplay cover, è uno dei momenti più audaci. When I get home è il frutto dell’unione di più registrazioni, per esempio la voce di Magda o il suono dei violini. L’idea iniziale, come raccontato dal collettivo, era di registrare in stanze diverse e far girare il microfono da un luogo all’altro. Un’idea che ha preso corpo solo per il beat che accompagna la traccia da inizio a fine, ripreso da un bagno, e in uno dei picchi di caroline 2, Coldplay cover. In questo brano c’è un po’ tutto. L’abilità di scrivere canzoni melodiche “nella norma” e allo stesso tempo renderle uniche.
«Sapevamo che volevamo che almeno una delle canzoni avesse questo 'microfono viaggiante'» ha spiegato il gruppo. «Il brano si muove essenzialmente tra due diversi gruppi di persone ed è stata catturata da Syd Kemp, con un microfono Zoom. Il risultato è una sorta di due canzoni che suonano contemporaneamente in stanze della casa».
Il salto di qualità, se passate la brutalità del concetto, i caroline l’hanno però fatto nella già citata capacità di scrivere pezzi in grado di inquadrare la loro capacità tecnica e improvvisativa in una struttura più definita. Tell me i never knew that con Caroline Polachek rappresenta tutto questo. Un featuring talmente inaspettato che neppure il gruppo stesso ci ha creduto finché, a pochi giorni dalla masterizzazione dell’album, non sono arrivate le registrazioni vocali dell’artista newyorkese. D’altronde, con quel nome lì, non poteva che nascere una perla. Le due “caroline” si intersecano in un brano pop e post-rock allo stesso tempo. C’è l’autotune che convive con i violini e gli ottoni e, nel crescendo finale le vocalizzazioni sullo sfondo, conducono il pezzo in paradiso. A tratti sembra di ascoltare una versione acustica di brat.

Sullo stesso stile rimane un pezzo quasi gemello, l’unico con il titolo in capslock. U R UR ONLY ACHING alterna momenti sentimentali chitarra e voce, stupenda la parte centrale a due voci che precede l’esplosione sintetica di autotune registrata in un cimitero (Nunhead Cemetery). Prendete i Mogwai e lanciateli in una tempesta di raggi gamma. Ma non basta, perché poi rientrano i violini. Ancora una volta tecnica e istinto che si combinano in una serie di slanci emozionanti.
Il sentimento che esonda da caroline 2 è un senso quasi inspiegabile di malinconia intrisa di speranza. Un aspetto che lo avvicina molto all’emo. Facendo il classico gioco dell’inventarsi generi con quanti più aggettivi possibili, si potrebbe definire un disco emo-folk-post-rock. Two riders down è la canzone da utilizzare come dimostrazione nel caso qualcuno avesse qualcosa da ridire su qualcuno degli stili citati. Nei quasi sette minuti ci sono gli American Football che giocano con gli archi e la batteria alt jazz dei Black Country, New Road e, dopo un lungo riverbero di violini c’è l’apoteosi rock dove sembra di ascoltare una versione di Snow Globes suonata dai Mogwai.
E i testi? C’è poco da dire, è quasi tutto da sentire perché decontestualizzarli dalla musica toglie loro qualsiasi valenza. Sono espressioni nate solo per quelle strumentali, per quegli accordi e sulle improvvisazioni e le trovate tecniche del gruppo. Il modo di cantarli contribuisce al loop emozionale che arrivi a sperare non finisca mai una volta che ci finisci dentro.

Nel modo in cui si citano altre band e artisti per cercare di inquadrare quest’evoluzione dei caroline si nasconde un’onesta incapacità descrittiva. Non si sta parlando di derivazione fine a se stessa, solo di una riscoperta di determinati suoni e stilemi. Tutto quello che si è scritto c’è di fatto, ma sta lì senza sforzo e senza alcun pensiero a priori. È come se gli otto membri del collettivo fossero il frutto di tutto quello che c’è stato e, per quanto sia vero che l’arte in qualche modo, volente o nolente, imita sempre l’arte, conta il momento giusto.
«Maybe I don't wanna be anyone / At the right time / I don't wanna be somebody else» cantano in modo profetico le voci della band britannica mentre si intrecciano con quella di Caroline Polachek. E quel momento ideale può arrivare quando meno te l’aspetti, per esempio in un periodo storico in cui la musica segue due canali paralleli opposti: da un lato l’ossessiva e ostentante narrazione del successo e della performance, dall’altro la ricerca dell’autenticità più assoluta in forme stilistiche e sonore minimali, spoglie e radicate in una riscoperta della tradizione.
Questi ragazzi londinesi, senza probabilmente neppure pensarlo, tra tecnica e sentimento, si posizionano nel mezzo e sono il rifugio per tutti coloro ancora in cerca di una strada. La risposta è che quella strada non c’è, ma bisogna, da soli, calpestare la propria porzione di prato e segnare il sentiero più adatto. E i caroline l’hanno fatto con un album che forse segnerà il principio di qualcos’altro.
